Capitolo XVIII

 

Francesco Maria della Rovere

 

Subito dopo aver concesso la città di Pesaro al nipote, Giulio II, nella notte tra 20 e 21 febbraio 1513, moriva. Nel mese successivo fu eletto e consacrato papa (9 e 17 marzo) il cardinal Giuliano de’ Medici, che prese il nome di Leone X: il nuovo pontefice assicurò il grado di capitano generale delle milizie ecclesiastiche impegnate nella guerra del 1515 contro la Francia ai suoi familiari (dapprima Giuliano de’ Medici, poi Lorenzo), estromettendo Francesco Maria[1].

L’aria era decisamente cambiata e lo Stato si trovava a confinare, da tutti i lati, con territori ecclesiastici o possessi di casa Medici. In quegli anni un motivo di attrito tra Medici e Della Rovere era costituito dai due piccoli stati di Carpegna e Gattara, raccomandati di Firenze (che aveva anche diritto di annessione, mancando la linea maschile delle due signorie) ma ben al di qua dell’Appennino, quasi interamente circondati dai domini rovereschi. Nel 1513 un condottiero del Duca d’Urbino, Giovanni Nicolò, aveva istigato alla ribellione il castello di Miratoio, poi recuperato dal conte Francesco di Gattara: in una lettera del 30 agosto degli Otto di Pratica al Duca d’Urbino, si prospetta l’accusa che la ribellione fosse stata causata da qualche favore che è prestato dalla S.V.[2].

 

Costantino Comneno a Fano

Il pontificato di Leone X vide nascere una nuova signoria nella provincia, quella dei Comneni, a Fano. Nel 1515 infatti il Papa, non badando ai privilegi sanciti al momento della devoluzione alla Chiesa della città, affidò il governo perpetuo di Fano (e dei castelli di Mondaino e Montefiore, in Romagna) a Costantino Comneno, principe di Macedonia, creditore di somme ingenti nei confronti della Camera Apostolica. La prevaricazione sui diritti della città suscitò un’improvvisa rivolta popolare (ultimo giorno di carnevale 1516), presto sedata grazie anche all’intervento delle milizie urbinati: quattro capi della rivolta furono impiccati[3].

 

Francesco Maria privato del Ducato (1516)

Leone X era spinto dai suo parenti (il nipote Lorenzo e Alfonsina Orsini sua madre) ad occupare il Ducato di Urbino, malgrado la decisa opposizione di Giuliano de’ Medici, suo fratello, che era stato ospitato per molti anni presso la corte feltresca. Per privare Francesco Maria dei suoi beni prese come pretesto sia l’uccisione del cardinale Alidosi sia l’accusa di tradimento (rifiuto di inviare soldati nell’esercito ecclesiastico, accordi segreti con i nemici della Chiesa; tentativo di passare al servizio del re di Francia;  rifiuto di passaggio nei suo Stati a soldati della Chiesa; angherie nei confronti di militari in fuga dopo la battaglia di Ravenna)[4].

Il processo iniziò nel gennaio 1516. Il 1 marzo il Duca di Urbino era citato a presentarsi a Roma entro diciotto giorni: venne la duchessa Eleonora Gonzaga, vedova di Guidubaldo da Montefeltro, a discolpare il figlio adottivo. Il 14 marzo veniva stampata la bolla pontificia che dichiarava Francesco Maria decaduto da tutti i suoi Stati per ripetuta fellonia. Il 18 marzo moriva a Fiesole Giuliano de’ Medici, principale sostenitore, in seno alla famiglia del papa, del Duca di Urbino[5].

Francesco Maria, non potendo contare sull’aiuto dei principi italiani e dei sovrani europei, il cui appoggio era stato ricercato precedentemente dal Papa, poteva fare affidamento solo sulle sue truppe (duecento uomini d’arme, cinquecento cavalieri, settemila fanti), sul suo coraggio e valore, sulla fedeltà dei sudditi. Nella primavera 1516 l’esercito ecclesiastico, muovendo dalla Romagna, dalla Toscana, dalla Marca, attaccò il Ducato: Lorenzo de Medici, con mille uomini d’arme, mille cavalli leggeri, dodicimila fanti, era penetrato nello Stato di Pesaro e si era fermato a Gradara; Gianpaolo Baglioni muoveva verso Gubbio con cento cavalieri, cinquecento cavalli, tremila fanti; Vitellozzo Vitelli, da Città di Castello, valicati gli Appennini, si era fermato alla fine di maggio a Casteldurante con cinquemila uomini d’arme, duecento cavalli leggeri e duemila fanti; altre truppe erano inviate da Camerino[6].

Vista la sproporzione delle forze, ogni resistenza sembrò a Francesco Maria inutile: diede pertanto ordine alle comunità dello Stato di non opporsi alle truppe ecclesiastiche. Il Vitelli, occupate il 29 maggio Mercatello, Sant’Angelo in Vado e Casteldurante, poteva entrare, il giorno successivo, ad Urbino e Fossombrone e, da lì, negli altri luoghi del Ducato. Il Duca nel frattempo si era ritirato a Pesaro, da dove partì in volontario esilio per Mantova: nel giro di pochi giorni, tra fine maggio ed inizio giugno, quasi tutto lo Stato era in mani ecclesiastiche[7] e restavano ai rovereschi solo le rocche di Pesaro (difesa dal capitano roveresco Tranquillo da Mondolfo e da tremila fanti), Senigallia, S. Leo e Maiolo[8].

La resistenza di tali piazzeforti si protrasse per qualche tempo. La rocca di Pesaro fu presa per un tumulto dei soldati che abbandonarono il comandante, poi giustiziato dagli ecclesiastici. Maiolo si arrese dopo qualche giorno. San Leo fu assediato da duemila fanti e, dopo  tre mesi, fu presa grazie alla scalata della parete rocciosa sulla quale si ergeva la rocca[9].

Nel frattempo, il 1 settembre 1516, Leone X aveva assegnato il Ducato al nipote Lorenzo de’ Medici[10].

 

Il ritorno di Francesco Maria della Rovere

Ma Francesco Maria, da Mantova, sostenuto segretamente dal re di Francia (o almeno dal governatore francese di Milano, Odet de Foix, signore di Luatrec), convinse truppe mercenarie spagnole (cinquemila uomini), rimaste in Italia senza stipendio dopo la pace di Noyon (4 dicembre 1516) a seguirlo nella riconquista del Ducato. A questi si aggiunsero circa ottocento “cavalli leggeri” condotti da Federigo Gonzaga, signore di Bozzolo (che godeva di reputazione per la nobiltà del casato e per l’esperienza nelle armi, spinto all’avventura  dal desiderio di accrescere la sua fama, dall’amicizia che teneva con Francesco Maria, dall’odio che provava nei confronti di Lorenzo de’ Medici), dallo spagnolo Gaioso, dal borgognone Zuchero, da Andrea Bua e dall’albanese Costantino Boccola[11].

Con queste truppe, ma senza denaro, artiglieria, munizioni, vettovaglie, Francesco Maria, inviata una lettera il 17 gennaio 1517 ai cardinali con cui giustificava la sua azione, si mosse da Verona. Provvide anche ad inviare alcuni gentiluomini nelle principali città e province del Ducato per farle insorgere[12].

Le contromisure pontificie non tardarono: la Romagna era piena di genti armate con l’ordine di fermare l’esercito invasore. Il Ducato era però sguarnito, tranne Urbino, dove si concentrò un forte corpo di guardia (duemila fanti di Città di Castello, guidati da Iacopo Rossetto) e da dove furono espulsi gli uomini dai sedici ai sessant’anni per la paura di una ribellione a favore degli attaccanti (ma l’ordine ebbe conseguenze controproducenti: gli Urbinati sollevarono il contado mentre l’esercito di Francesco Maria stava arrivando)[13].

Lorenzo de’ Medici, che lasciò Roma il 18 di gennaio del 1517, aveva il comando supremo delle truppe pontificie nella guerra contro il Della Rovere; tuttavia, per la sua scarsa esperienza, fu affiancato da Renzo Orsini, Giulio Vitelli e Guido Rangana[14].

 

Riconquista del Ducato

Attraversata la Romagna senza combattere, passando tra le milizie ecclesiastiche, l’esercito feltresco penetrò nel Ducato, bene accolto dalla popolazione: intorno ad Urbino si concentrarono, oltre alle truppe guidate dal Della Rovere, contingenti di soldati di Cagli (guidati da Carlo Gabrielli) e di Fossombrone, capitanati dal conte Clemente da Thiene (questi ultimi avevano disperso, facendo trecento morti e centocinquanta prigionieri, una compagnia di soldati marchigiani tra Calmazzo e Badia di Gaifa)[15]. Iacopo Rossetto preferì non impegnarsi nell’assedio ed uscì dalla città con i suoi soldati; restò in mano degli invasori il vescovo Vitello di Urbino, che per il nuovo duca governava lo Stato. In pochi giorni quasi tutti gli antichi possessi rovereschi erano tornati al vecchio signore: rimanevano alle truppe di Lorenzo e della Chiesa soltanto S. Leo, Pesaro, Senigallia e Gradara[16].

Non potendo assalire Pesaro e Senigallia, protetti da forti guarnigioni, Francesco Maria, fatta dimostrazione di voler attaccare la prima città, si mosse verso Fano, con la speranza di occuparla: Renzo da Ceri, che era a Pesaro, però vi mandò subito uomini d’arme e fanti: l’assalto dei rovereschi, tentato in due giorni successivi, fu respinto[17]. L’esercito roveresco si fermò quindi a Mombaroccio; le truppe medicee ed ecclesiastiche si concentrarono intorno a Pesaro, a Candelara (fanti italiana) e Novilara (truppe tedesche e guascone)[18].

 

L’offensiva mediceo-ecclesiastica e l’assedio di Mondolfo

Ottenuti rinforzi, le truppe medicee-ecclesiastiche passarono all’attacco e fu mandato Camillo Orsini con settecento cavalli leggeri a scorrere il Vicariato, che forniva vettovaglie all’esercito roveresco; ma, non avendo ottenuto risultati rilevanti, e vedendo enormemente rafforzato il suo esercito  (oltre quindicimila uomini), Lorenzo decise di dirigersi a Sorbolongo, castello del contado di Fano distante cinque miglia da Fossombrone, da cui si sarebbero potute benissimo intercettare le vettovaglie inviate da tale zona all’esercito roveresco a Mombaroccio[19].

Nella mattinata quattrocento cavalli leggeri, guidati da Giovanni de’ Medici (il futuro Giovanni delle Bande Nere), Giovambattista da Stabbia e Brunoro da Forlì, furono inviati per occupare il luogo e prevenire l’esercito roveresco: Giovanni de’ Medici riuscì ad entrare nel castello; gli altri due comandanti, ingannati dalle guide, girarono in lungo e largo la zona finché, a sera, si riunirono col grosso dell’esercito. Questo infatti, partito in ritardo e attardatosi nel cammino, non era riuscito a raggiungere la meta per il sopraggiungere della notte e dovette ripararsi nei castelli di San Giorgio, Orciano e Mondavio[20].

Giovanni de’ Medici si trovò quindi isolato in Sorbolongo, che fu attaccato prima di sera dai Rovereschi, giunti da Mombaroccio con grandissima celerità: si dovette ritirare a Orciano mentre molti dei suoi erano catturati dagli avversari. Sorbolongo era saldamente tenuta dalle truppe di Francesco Maria, che si disposero anche nella vicina Barchi. Il giorno successivo fu speso in scaramucce tra i due eserciti[21].

Sorbolongo non poteva essere presa, anche perché i Rovereschi erano aiutati dalla conformazione del luogo. I Medicei decisero quindi di mutare obiettivo: avrebbero occupato Mombaroccio, luogo principale di raccolta delle truppe di Francesco Maria, per poi marciare, da lì, verso Urbino: la mattina del  terzo giorno dall’inizio della spedizione l’esercito si mosse verso il guado di  Mulino di Madonna, incalzati dai Rovereschi, convinti che l’esercito si stesse ritirando su Fano. Una volta accortisi della manovra medicea,  Francesco Maria e i suoi capitani occuparono Tavernelle. Fu giocoforza per i Medicei ripiegare a Saltara, dove passarono la notte; mentre i rovereschi si portavano a Mombaroccio[22].

A questo punto le truppe di Lorenzo de Medici si diressero verso una delle principali terre del Vicariato, S. Costanzo (situato a pochi chilometri da Fano), che fu preso e saccheggiato. Quindi a Mondolfo, dove erano di guardia duecento fanti spagnoli, che si prepararono a sostenere l’assedio (che sarebbe durato diciotto giorni). Nelle operazioni intorno a tale località fu ferito gravemente al capo da un colpo di archibugio Lorenzo de’ Medici. L’assedio proseguì e, dopo qualche giorno, gli Spagnoli, non  avendo ricevuto soccorsi, si arresero “salvo l’avere e le persone, lasciando in preda bruttamente gli uomini della terra”: era il 3 aprile 1517 e la terra fu orrendamente saccheggiato per otto giorni[23].

Fu mandato dal papa come legato, a sostituire Lorenzo, che era in grave pericolo di vita, il cardinale di Santa Maria in Portico, “il Bibbiena”, che subito (6 aprile) dovette sedare un tumulto scoppiato tra truppe di diverse nazionalità: riuscì nel suo intento, dopo che erano stati uccisi, in diversi luoghi del campo, più di cento fanti tedeschi, venti italiani e qualche spagnolo[24].

 

La battaglia dell’Imperiale

La conquista di Mondavio fu uno dei pochi successi medicei della guerra. Dopo essersi portato verso Pesaro e aver osservato da vicino gli avversari per ventitré giorni, i rovereschi attaccarono il monte dell’Imperiale, dove erano accampate le truppe italiane, spagnole, tedesche e francesi al servizio dei Medici e della Chiesa: passarono dalla parte di Francesco Maria gran parte degli spagnoli; più di seicento tedeschi furono uccisi in un attacco a sorpresa[25].

Cinque o sei giorni dopo lo scontro all’Imperiale passarono dalla parte dei rovereschi parte dei Guasconi e alcuni reparti tedeschi; e il giorno successivo nuovo tumulto nel campo ecclesiastico dei fanti italiani per aumento degli stipendi. “Ed era certo cosa maravigliosa che nello esercito di Francesco Maria, nel quale a’ soldati non si davano mai i danari, fusse tanta concordia ubbidienza e unione (...); e per contrario, che nello esercito della Chiesa, ove a’ tempi debiti non mancavano eccessivi pagamenti, fussino  tante confusione e disordini, e tanto desiderio ne’ fanti di passare agli inimici. Donde apparisce che non tanto i danari quanto altre cagioni mantengono spesso la concordia e l’ubbidienza negli eserciti”[26].

 

Scorreria di Francesco Maria in Umbria; presa di Fossombrone e Pergola

Ma i problemi non mancavano a Francesco Maria: l’aumento degli effettivi comportava necessità di più consistenti vettovaglie, reperibili con difficoltà nel Ducato, e necessità di reperire denaro per le paghe (che finora nessuno aveva avuto).

Anche per alleggerire il peso dell’esercito che inevitabilmente ricadeva sulle terre a lui soggette, decise di effettuare una scorreria a Perugia, dove sperava di mutare il governo della città, allora nelle mani di Giampaolo Baglioni (che, per le milizie ecclesiastiche, militava presso Pesaro), a favore di Carlo Baglioni[27]. Dopo una sosta presso Gubbio, che costò la testa al colonnello spagnolo Maldonato e a tre capitani spagnoli, che avevano progettato di tradire Giovanni Maria e che, scoperti, furono denunciati dal duca all’esercito e immediatamente giustiziati, l’esercito giunse a Perugia[28].

Qui Giampaolo Baglioni, precipitosamente rientrato in città, si accordò con il Della Rovere: avrebbe pagato diecimila ducato, fornito vettovaglie per quattro giorni e si sarebbe impegnato a non prendere le armi in cambio della partenza dal territorio di Perugia[29] . L’esercito roveresco si volse quindi verso Città di Castello, dal cui territorio si allontanò subito per ritornare nel Ducato[30].

Qui, infatti, il Bibbiena, approfittando dell’assenza dell’esercito roveresco, aveva assalito Fossombrone che, dopo tre giorni di assedio, fu espugnata e saccheggiata[31]. Si diresse quindi a Pergola, dove lo raggiunsero le truppe (quattrocento lance) che, sotto il comando del conte di Potenza, erano state inviate dal re di Spagna: anche questa terra fu presa e data in preda ai soldati[32]. Avuta quindi notizia dell’arrivo di Francesco Maria, il Bibbiena decise di ritirare le truppe dalle due città e, tallonato dai nemici, si rifugiò a Fano[33].

 

Scorreria di Francesco Maria nella Marca

Le truppe roveresche si diressero allora nella Marca: Fabriano e altre terre si accordarono, versando somma consistenti per evitare il saccheggio delle città e dei contadi; Iesi fu saccheggiata; Ancona si accordò per ottomila ducati. Corinaldo non scese a patti e fu assediata per ventidue giorni, dopo di che Francesco Maria, privo di armi d’assedio, dovette ritirarsi[34]. Nel frattempo  gli ecclesiastici avevano fatto una scorreria fin sotto le mura di Urbino e un capitano ecclesiastico, Sise, ritornando da Città di Castello in Romagna, aveva preso per forza Secchiano e alcune piccole terre: per il resto le milizie ecclesiastiche erano rimaste ben chiuse a Rimini, Pesaro, Fano, Senigallia[35].

 

Ultime mosse di Francesco Maria

Partito da Corinaldo, Francesco Maria ritornò nello stato di Urbino; quindi si accostò a Pesaro, in cui era acquartierano il conte di Potenza con le sue genti. Per impedire il vettovagliamento delle truppe avversarie fece scendere in mare alcune imbarcazioni, che però ebbero la peggio in uno scontro con sedici legni che scortavano alcune imbarcazioni di vettovaglie da Rimini inviate a Pesaro: affondato il naviglio principale, tutti gli altri furono presi. Perciò, disperando di poter prendere la città, Francesco Maria si allontanò[36].

Fu la volta quindi di Rimini, dove si scontrarono, nei borghi intorno alla città, truppe roveresche e pontificie, con morti da entrambe le parti, ma con danno maggiore dei rovereschi. Francesco Maria decise quindi di fare un’incursione in Toscana, spinto più dalla necessità che dalla speranza, non potendo altrimenti sostentare un esercito così numeroso: prese Montedoglio, luogo debole e poco importante; non riuscì a prendere Anghiari; si fermò presso Borgo S. Sepolcro[37].

 

Fine della guerra

La situazione comunque era ormai senza vie d’uscita per il Della Rovere, che non poteva vincere. Il Papa del resto, sull’orlo del tracollo finanziario, doveva assolutamente concludere questa folle guerra che distruggeva il prestigio, e le finanze, della Curia. Era ormai ora di intavolare trattative di pace. Presero l’iniziativa i fanti spagnoli, con il consenso di Francesco Maria, e si giunse presto alle seguenti condizioni: il pontefice avrebbe pagato gli stipendi ai soldati rovereschi (quarantacinquemila ducati agli Spagnoli, sessantamila a Guasconi e Tedeschi); tutti sarebbero partiti, entro otto giorno, dallo Stato della Chiesa, da quello fiorentino e dal ducato d’Urbino; Francesco Maria avrebbe potuto raggiungere tranquillamente Mantova con tutte le sue robe, con l’artiglieria e con la celebre libreria di Federico da Montefeltro; il pontefice inoltre assolveva dalle censure e perdonava tutti i suoi avversari[38].

Terminava così, nel settembre 1517, la guerra di Urbino, durata otto mesi, “con gravissima spesa e ignominia dei vincitori”: la somma spesa dal papa era stata, dall’inizio del conflitto, di 800.000 ducati, una somma enorme per quei tempi. Le finanze papali erano in ginocchio[39].

 

Governo mediceo ad Urbino (1517-1519)

Il controllo mediceo su Urbino si sarebbe mantenuto solo per un biennio. Lorenzo governò per interposta persona, grazie al conte Roberto Boschetti da Modena, nominato il 22 settembre 1517 viceduca. “(Lorenzo) volle inaugurare un regime durissimo: disarmati i popoli, abbattute le mura di parecchie terre, richiamati con minaccia di confisca i fuorusciti e soprattutto forti salassi di quattrini. Si vollero esatte non solo le gravezze nuove, ma anche le vecchie già pagate a Francesco Maria. E poiché poi in seguito la salara di Urbino, triste indice delle tristissime condizioni delle popolazioni, non rendeva più come pel passato, Lorenzo, non si può dire  se più barbaramente o più stoltamente, ordinò che si costringessero le terre e i comuni a prendere alla dispensa dello Stato quella quantità di sale, che prendevano prima. A tutto ciò s’aggiungeva infine il flagello delle milizie, che non volevano uscir dal ducato per non aver ricevuto le paghe e dissanguavano le popolazioni, specialmente quelle di campagna, le più danneggiate dalla guerra. Per quanto il Boschetti cercasse di mitigare l’asprezza di ordini insensati, pure non si nascondeva che lo scontento nei popoli così vessati serpeggiava profondo... Alcuni dei maggiori feudatari (Filippino Doria e Ambrogio Landriani), deditissimi a Francesco Maria, erano usciti dal ducato e non avevano curato affatto le intimazioni di presentarsi ad Urbino a giurar fedeltà e fare atto di omaggio al nuovo signore”[40].

 

Il Ducato devoluto alla S. Sede.

Alla morte di Lorenzo, avvenuta il 4 maggio 1519, non avendo costui figli maschi (unica erede era una bimba, Caterina, la futura regina di Francia)[41], la Santa Sede incamerò l’intero Ducato, di cui fu confermato governatore il conte Boschetti[42].

Dallo stato roveresco furono staccati alcuni territori, affidati a personaggi o città che avevano parteggiato per la Chiesa nella recente guerra.

Ad un tal Antonio dei Guidalotti, che aveva combattuto per i Medici nella recente guerra, fu concesso il 31 dicembre 1519, l’ex feudo dei Montevecchio (S. Lorenzo, Montalfoglio e metà del castello di Miralbello), pochi anni prima incorporato da Francesco Maria; degli stessi luoghi fu investito, il 12 ottobre 1520, Giovanni Maria Varano, duca di Camerino, fedele partigiano ecclesiastico e vecchio nemico di Francesco Maria della Rovere[43], che ottenne anche la signoria su Senigallia e Castelleone (e nel 1521 anche quella di Pesaro)[44].

Analogamente, il 29 aprile 1520, anche Castelvecchio (antico possesso dei Montevecchio, passato nel 1510 a Francesco Maria) veniva concesso dal Papa a Bonifacio Fittello d’Arcevia e a Pietro Antonio dei Guidalotti d’Urbino[45].

Il Vicariato di Mondavio, comprendente venti castelli, fu quindi, il 26 maggio 1520, riannesso alla città di Fano, che ne aveva avuto il possesso prima dell’investitura ai Della Rovere, nel 1463[46].

A Firenze il 5 luglio 1520 fu assegnato, oltre al piviere di Sestino (esterno al Ducato ma sul versante marchigiano della catena appenninica), tutto il Montefeltro, ufficialmente come pegno delle somme di 100.000 e 400.000 scudi che il papa doveva a Firenze per i servigi prestati e che non era in grado di restituire. Il primo sarebbe da quel momento in poi rimasto incorporato nello Stato mediceo[47].

Il 15 dicembre 1520 venivano infine concessi Apecchio, la Carda, Mercatello e vicariato di Lamoli al comune di Città di Castello[48].

 

Francesco Maria riconquista il Ducato.

Tutte queste investiture ebbero vita breve. Morto infatti Leone X il 1 dicembre 1521, nel periodo di interregno precedente l’elezione e la consacrazione del successore (Adriano VI, eletto il 9 gennaio 1522; consacrato il 31 agosto di quell’anno), Francesco Maria si mosse da Ferrara alla riconquista dello Stato con 200 lance, 400 cavalli e 2200 fanti: con lui si trovavano una serie di signori cacciati da Leone X dai loro Stati, tra cui il nipote di Francesco Maria, Sigismondo Varano, e Orazio e Malatesta Baglioni, pretendenti alla signoria di Perugia[49].

Prima ancora della partenza da Ferrara, il 12 dicembre, riceveva notizia che Urbino si era sollevata[50]; il 17 era presso Rimini, quando ormai tutte le città dello Stato, tranne Pesaro e Senigallia, si erano schierate dalla sua parte[51]; il 22 Pesaro gli apriva le porte mentre le truppe ecclesiastiche, guidate da Luigi Masi, si rinchiudevano nella rocca[52]; le truppe di Giovanni Maria Varano poco dopo cedevano il controllo della rocca di Senigallia[53].

Il 28 dicembre infine entrava a Camerino, dove, allontanatosi il precedente signore, si insediava Sigismondo Varano; collaborava quindi con Malatesta Baglioni per la conquista di Perugia, in cui i ribelli entrarono il 5 gennaio 1522; tentò anche invano l’occupazione di Siena, da cui si ritirò il 19 gennaio[54].

 

L’accordo di pace e gli strascichi della guerra: i Fiorentini nel Montefeltro

Nei primi mesi del 1523 le truppe roveresche e quelle medicee si scontrarono nel Montefeltro (che Leone X aveva concesso allo Stato di Firenze). I primi scontri furono favorevoli alle prime: Sebastiano Bonaventura di Urbino, prefetto delle truppe di Francesco Maria, sconfisse presso Montecerignone alcune milizie toscane; occupò quindi il castello di Penna costringendo i nemici colà rifugiatisi alla fuga[55].

Tra gennaio e febbraio quasi tutta la provincia era passata nelle mani dei rovereschi e rimanevano in possesso dei medicei  solo le rocche di S. Leo e Maiolo: in aiuto delle truppe qui attestatesi, giunse un esercito di 15.000 uomini comandati da Giovanni dalle Bande Nere[56]. La rappresaglia medicea fu terribile: tra la fine di febbraio e i primi di marzo 1523 furono prese, saccheggiate e date alle fiamme Carpegna, Castellaccia e Penna; furono saccheggiati i castelli di Libiano, Torricella, Sartiano, Talamello, Maiolo, Perticara, Montecopiolo, Monte Boaggine, Pietrarubbia, Montecerignone, Pietra Maura e Serra[57].

Le truppe di Giovanni dalla Bande Nere però, dopo aver corso il Montefeltro, dovettero ritirarsi in Toscana: era stato infatti poco prima raggiunto un accordo tra il Collegio dei Cardinali e Francesco Maria I, in base al quale  il Duca si impegnava a non molestare lo Stato della Chiesa, Siena o Firenze; a prestare servizio, a richiesta, nell’esercito ecclesiastico; a consegnare il figlioletto Guidubaldo al marchese di Mantova come ostaggio. Il Collegio metteva sotto la sua protezione le terre del Duca e si impegnava ad ottenere dal papa una nuova investitura per tutti i territori a favore di Francesco Maria[58].

Intavolate trattative di pace tra Raffaele, commissario della Repubblica Fiorentina, e Francesco Maria, si giunse ad un accordo: tutte le terre feretrane sarebbero tornate in possesso del Duca ad eccezione di S. Leo e Maiolo, su cui avrebbe deciso il papa. A coronare la pace, Francesco Maria accettava di prestare servizio, dal 25 maggio all’agosto 1523, quale capitano generale  delle genti di Firenze con 200 uomini d’arme e 9000 ducati l’anno[59].

Il nuovo papa quindi, con bolla del 27 marzo 1523, provvide a legalizzare la posizione di Francesco Maria, confermò in suo favore tutte e singole le concessioni fatte dai papi precedenti, cassò ed annullò la sentenza di Leone X e lo reintegrò nello stato precedente reinvestendolo dei suoi Stati per il censo annuo di 1340  fiorini per il ducato di Urbino, 750 per la città di Pesaro e 100 per Senigallia[60].

 

Clemente VII e Francesco Maria

Nell’agosto 1523 infine, terminata la condotta con Firenze, Francesco Maria entrò al servizio di Venezia con la carica di governatore delle fanterie, 30.000 ducati l’anno, 200 uomini d’arme, la ferma di 2 anni e uno libero a volontà della Signoria[61]: avrebbe tenuto tale carica, coprendosi di prestigio (ma anche sollevando critiche per la sua condotta eccessivamente prudente nel 1527, quando non impedì il Sacco di Roma da parte dei Lanzichenecchi), fino alla morte, per ben quindici anni.

Nella sua nuova posizione il Duca era inattaccabile, ma papa Clemente VII, subentrato ad Adriano VI nel novembre 1523 e nipote di Leone X, rifiutò in un primo momento di riconoscere a Francesco Maria il possesso dei suoi Stati: nel 1525 addirittura investì del Ducato Ascanio Colonna, figlio di una sorella di Guidubaldo da Montefeltro e, in subordine a costui, Francesco Maria. La situazione si normalizzò comunque nel 1529, quando gli concesse i vicariati e il titolo di prefetto di Roma[62].

Nel frattempo con l’imperatore (e re di Spagna) Carlo V erano corretti. Siamo nel periodo in cui inizia, di fatto, l’egemonia spagnola sull’Italia (confermata poi nel 1559 dalla pace di Cateau-Cambresis): nel 1532 Giulio Stati, conte di Montebello, portò delle truppe urbinati in Germania per combattere nell’esercito imperiale, allora impegnato contro gli Ottomani[63]; nel 1533, con diploma del 30 maggio, Carlo V restituiva a Francesco Maria I, il ducato di Sora, a lui sequestrato in occasione della guerra di Urbino[64].

 

Disordini a Fano

Durante il breve pontificato di Adriano VI (1522-23) e nel successivo periodo di sede vacante esplosero disordini a Fano tra le famiglie dei Gabrielli e dei Bollioni; papa Clemente VII quindi non trovò di meglio che affidare il governo perpetuo della turbolenta città, nel 1524, a Costantino  Comneno[65]

Nel 1527, a fine luglio, ci fu una sanguinosissima sollevazione cittadina contro il Comneno: la rocca fu assalita e fu ucciso Gualberto Senile, suo luogotenente e Commissario Apostolico. “Nella quale congiura i Magistrati stessi, che nell’ammutinamento v’ebbero gran parte, vi collocarono le milizie, e della Rocca occuparono le chiavi. Volevano di più invadere il Vicariato, e ricuperarne il dominio; ma le truppe del Duca d’Urbino poste ai confini per guardare il Ducato dalla peste n’impedirono l’esecuzione”[66]. Poi, nel gennaio 1528 Antonio Bonfio vescovo di Terracina, giunse con alcune milizie ecclesiastiche e recuperò il possesso della città[67].

Costantino Comneno ritornò pertanto di nuovo in possesso dell’infido centro marchigiano ma ormai il centro di interesse della famiglia si era spostato in Romagna: il suo domicilio abituale era la rocca di Montefiore (che, con Mondaino, era sottoposto alla città metaurense dal 1463). Alla sua morte, avvenuta l’8 maggio 1530, il governo perpetuo di Fano fu prorogato a suo figlio Aranino; se non che, nel 1531, con l’ennesima rivolta in cui rimase ucciso il luogotenente Clemente Roncoti, la città ritornò, per qualche mese, prima di un altro tentativo di riassoggettarla a governatorato perpetuo, sotto il diretto controllo pontificio. Mondaino e Montefiore sarebbero invece stati uniti alla legazione di Romagna all’inizio del 1536[68].

Dopo la rivolta del 1531, la S. Sede cercò altri personaggi in grado di svolgere la funzione di governatore perpetuo di Fano: nello stesso 1532, il 24 settembre, Lorenzo e Giuliano de’ Medici, che erano creditori nei confronti della Sede Apostolica di 6600 ducati, ottennero la città e per loro ne prese possesso il luogotenente Giovan Battista Riccobaldi da Volterra[69].

Subito magistrati cittadini, nobili e popolo mostrarono disappunto per la concessione e il 5 gennaio 1533 scoppiò un tumulto: il Riccobaldi fu ferito, diversi fanesi uccisi. Tra i promotori della rivolta il capitano Pietro Guarino, suo fratello Orazio, Agostino Vigeris da Cartoceto, Francesco Palazzi: contro costoro il papa spedì come commissario apostolico Callisto de’ Amandis. Furono pronunciate ventotto condanne a morte, di cui dieci eseguiti, contro i ribelli, di Fano e del contado[70].

Dopo la sommossa, i Medici rinunciarono al governo e Fano venne concessa il 7 aprile 1533 al cardinale Benedetto Accolti, legato della Marca, detto “cardinal di Ravenna”, che riscattò il debito che i Medici vantavano nei confronti della Santa Sede. Ma nel settembre dello stesso anno ci furono soliti disordini in città, culminati con la fuga del luogotenente del Cardinale, Benedetto Conversini[71].

Il nuovo luogotenente dell’Accolti, Filippo d’Osimo, giunse a Fano solo ad aprile 1534. Nel frattempo i Fanesi avevano accolto con molta benevolenza in città Matteo Varano che, con i fratelli Fabrizio e Piergentile, si dirigeva alla conquista di Camerino, su cui aveva posto gli occhi anche Francesco Maria I, che stava allora combinando il matrimonio del figlio con Giulia Varano, erede di quello Stato. Matteo, respinto da Camerino, si rifugiò a Fano, dove però inviò le sue truppe Francesco Maria, facendo scorrerie e saccheggiandone il territorio. Finalmente, al principio di gennaio 1534, i Varano partirono, via mare, da Fano e la tensione si allentò[72]. Il cardinal Accolti rinunciò al governo perpetuo di Fano nell’agosto 1535[73].

Prima di abbandonare la carica, l’Accolti aveva comunque approvato, per mano del suo vicario Silvestro Aldobrandini, per porre fine a trent’anni di lotte intestine e disordini, lo statuto della Compagnia della S. Unione, creata nel gennaio 1535 “da poche persone dabbene della plebe”: guidata da un fornaio di nome Guido, aveva caratteristiche di confraternita religiosa ed i suoi membri, appartenenti al ceto medio cittadino, vigilavano sull’ordine pubblico e facevano guardia alle porte; essi potevano armarsi liberamente ed intervenire per sedare i disordini senza incorrere in alcuna sanzione. La compagnia riuscì a mantenere l’ordine pubblico in città almeno fino al 1560; perse poi progressivamente prestigio e poteri fino a scomparire alla fine del secolo[74].

 

La questione di Camerino

Il 14 dicembre 1527, nel frattempo, Francesco Maria I e Caterina Cybo, madre e tutrice di Giulia Varano, duchessa di Camerino avevano firmato promessa di matrimonio per i rispettivi figli (Guidubaldo e Giulia), ancora bambini: in virtù dell’accordo Giulia avrebbe sposato Guidubaldo all’età di 14 anni portandogli in dote 30.000 ducati; Francesco Maria scendeva in campo a protezione della futura nuora, impegnata in una guerra civile a Camerino contro altri esponenti della casata dei Varano[75].

Il progetto era vantaggioso per i Della Rovere che, in prospettiva, avrebbero riunito nelle loro mani, nella persona dei discendenti di Guidubaldo, due ampi ducati della regione marchigiana, aumentando considerevolmente la loro potenza. Per lo stesso motivo l’idea dispiacque a papa Clemente VII che, tergiversando, non diede la sua approvazione[76].

Alla morte del Papa (25 settembre 1534), Francesco Maria pensò di mettere il successore di fronte al fatto compiuto e, prima dell’elezione del nuovo pontefice (che sarebbe stato eletto il 13 ottobre e consacrato, con il nome di Paolo III, il 3 novembre), mandò Guidubaldo a Camerino per concludere e consumare (sebbene Giulia fosse solo dodicenne) il matrimonio, che fu celebrato il 12 ottobre 1534[77].

Il Papa non poteva accettare il fatto compiuto e, dopo aver privato del ducato Guidubaldo, Giulia e Caterina Cybo, inviava un esercito nelle Marche per occupare Camerino. La sua azione si concluse però con un nulla di fatto per l’intervento, a sostegno di Della Rovere e Varano, dell’imperatore Carlo V e dei Veneziani: le misure contro Camerino furono per il momento sospese (8 maggio 1536)[78].

 

Morte di Francesco Maria

Al congresso di Nizza, nel febbraio 1538, Impero, Stato della Chiesa e Repubblica di Venezia decisero di organizzare una grande spedizione contro i Turchi: il comando supremo di tutte le forze terrestri fu affidato a Francesco Maria della Rovere[79].

Egli tuttavia non poté svolgere tale compito: morì infatti a Pesaro, forse avvelenato (un certo Pierantonio, barbiere di Mantova, l’indiziato; ignoti i possibili mandanti), il 20 ottobre 1538[80].



[1]R. MARCUCCI, Francesco Maria I della Rovere, parte I (1490-1527), Senigallia 1903, p. 28.

[2]M. BATTISTELLI, Miratoio. Una comunità di confine tra Montefeltro e Massa Trabaria, Rimini 1992, p. 33.

[3]P.M. AMIANI, Memorie istoriche della città di Fano, Fano 1751, vol. II, pp. 109-111: anche il contado fanese era presidiato da fanti feltreschi (castelli di Saltara e Serrungarina);  G. BERTINI, L'ordine pubblico a Fano nel secolo XVI e la compagnia della Santa Unione, in "Studi Urbinati", B1, 1984, p. 16.

[4]F. GUICCIARDINI, Storia d'Italia, XII, 21; L. PASTOR, Storia dei papi, vol. IV, parte I, Roma 1912, p. 94. Ridimensiona le accuse Marcucci, Francesco Maria I, p. 28.

[5]Pastor, Storia dei papi, IV, pp. 95-96. Vds. anche Ivi, vol IV, parte II, doc. n. 16, pp. 643-644 (Papa Leone X minaccia a Francesco Maria della Rovere la scomunica maggiore - 1 marzo 1516)

[6]F. UGOLINI, Storia dei Conti e Duchi d'Urbino, Firenze 1859, vol. II, p. 205; G. VERNARECCI, Fossombrone dai tempi antichissimi ai nostri, vol. II, Fossombrone 1914, pp. 267-269; V. LANCIARINI, Il Tiferno Metaurense e la Provincia di Massa Trabaria - Memorie storiche, Roma 1890-1912, p. 676.

[7]Guicciardini, Storia d'Italia, XII, 21; Pastor, Storia dei papi, IV, p. 99 (notizia a Roma della conquista del Ducato fin dal 4 e 5 giugno); Lanciarini, Il Tiferno Metaurense, p. 676.

[8]Guicciardini, Storia d'Italia, XII, 21. La rocca di Senigallia si arrese quasi subito.

[9]Guicciardini, Storia d'Italia, XII, 21. Per l'assedio di S. Leo da parte delle milizie fiorentine-ecclesiastiche e per gli altri avvenimenti tra 1516 e 1517 nel Montefeltro vds. O. OLIVIERI, Monimenta Feretrana (introduzione, edizione critica e traduzione a cura di Italo Pascucci), Rimini 1981, pp. 275-287.

[10]A. TURCHINI, Il Ducato di Urbino, Pesaro e i Della Rovere, in AAVV, "Pesaro nell'età dei Della Rovere, Venezia 1998", pp. 3-56, a pag. 6.

[11]Guicciardini, Storia d'Italia, libro XIII, par. 1; Pastor, Storia dei papi, IV, 105-106

[12]Guicciardini, Storia d'Italia, XIII, 1; Ugolini, Storia dei conti e duchi di Urbino, p. 208. Furono inviati Vincenzo Ubaldini ad Urbino, Clemente da Thiene a Fossombrone, Ridolfo Cavalcabò a Cagli, Guglielmo Sanfercoli in Massa Trabaria, con commissioni per Marco Gabrielli di Gubbio.

[13]Guicciardini, Storia d'Italia, XIII, 1; Ugolini, Storia dei conti e duchi di Urbino, p. 209.

[14]Pastor, Storia dei papi, IV, p. 107.

[15]Vernarecci, Fossombrone, II, p. 274.

[16]Guicciardini, Storia d'Italia, XIII, 1. La notizia della perdita di Urbino giunse a Roma l'8 febbraio (Pastor, Storia dei papi, IV, p. 107).

[17]Guicciardini, Storia d'Italia, XIII, 1.

[18]Guicciardini, Storia d'Italia, XIII, 1.

[19]Guicciardini, Storia d'Italia, XIII, 3.

[20]Guicciardini, Storia d'Italia, XIII, 3.

[21]Guicciardini, Storia d'Italia, XIII, 3-4.

[22]Guicciardini, Storia d'Italia, XIII, 4.

[23]Una cronaca contemporanea agli avvenimenti descrive l'assedio e la conquista di Mondolfo: è edita da E. GRIMALDI, L'assedio di Mondolfo del 1517, in "Le Marche Illustrate nella storia, nelle lettere, nelle arti", anno II (1902), pp. 185-189 (p. 189: Havevano tagliati le vite in sino a terra. Havevano tagliati l'ulive in sino a terra et altri arbori. Capristrata la terra, che non si conosceva fossi, nè termine. Et questo fu nel 1517 adì 3. tre de Aprile). Vds. anche Guicciardini, Storia d'Italia, XIII, 4.

[24]Guicciardini, Storia d'Italia, XIII, 5; Vernarecci, Fossombrone, II, 272.

[25]Guicciardini, Storia d'Italia, XIII, 5.

[26]Guicciardini, Storia d'Italia, XIII, 5.

[27]Guicciardini, Storia d'Italia, XIII, 6.

[28]Guicciardini, Storia d'Italia, XIII, 6; Ugolini, Storia dei Conti e Duchi di Urbino, vol. II, doc. n. 19, pp. 527-528 (Due patenti del 27 febbraio 1517 di Lorenzo de' Medici al Maldonato, affinché  tradisca Francesco Maria I)

[29]Guicciardini, Storia d'Italia, XIII, 6.

[30]Guicciardini, Storia d'Italia, XIII, 6.

[31]Guicciardini, Storia d'Italia, XIII, 6; Vernarecci, Fossombrone, II, p. 273 (che pone la vicenda nel maggio 1517).

[32]Guicciardini, Storia d'Italia, XIII, 6; L. NICOLETTI, Di Pergola e suoi dintorni, Pergola 1899, p. 214.

[33]Guicciardini, Storia d'Italia, XIII, 6.

[34]Guicciardini, Storia d'Italia, XIII, 8.

[35]Guicciardini, Storia d'Italia, XIII, 8.

[36]Guicciardini, Storia d'Italia, XIII, 8.

[37]Guicciardini, Storia d'Italia, XIII, 8.

[38]Guicciardini, Storia d'Italia, XIII, 8; Pastor, Storia dei papi, IV, 134.

[39]Guicciardini, Storia d'Italia, XIII, 8; Pastor, Storia dei papi, IV, 135.

[40] Marcucci, Francesco Maria I, p. 34. Vds. anche Vernarecci, Fossombrone, II, p. 276. Per quanto riguarda i rapporti tra Lorenzino e feudalità locale, possiamo anche ricordare che fu fatto decapitare nel 1517 Federico Brancaleoni di Rocca Leonella (e distrutto quel castello) con l'accusa di aver battuto monete false; in realtà, secondo A. TARDUCCI, Piobbico e i Brancaleoni, Cagli 1897, p. 198, l'esecuzione avvenne perché il Brancaleoni era partigiano del Duca.

[41]Marcucci, Francesco Maria I, p. 35.

[42]Lanciarini, Il Tiferno Mataurense, p. 579; Vernarecci, Fossombrone, II, p. 281.

[43]Lanciarini, Il Tiferno, p. 674-678; Vernarecci, Fossombrone, II, p. 281; C. MICCI, Il monastero di S. Lorenzo in Campo, Ancona 1965, p. 136; A. POLVERARI (a cura di), Castelleone di Suasa, Ostra Vetere 1984, p. 155; A. POLVERARI, Mondavio, dalle origini alla fine del Ducato d'Urbino, Ostra Vetere 1984, p. 103. Francesco Maria aveva ottenuto tali luoghi, per disposizione testamentaria, ratificata dallo stesso pontefice, alla morte di Ottaviano da Montevecchio, nel 1510.

[44]Investitura del 12 ottobre 1520: Marcucci, Francesco Maria I, p. 38.  Per i rapporti tra Francesco Maria della Rovere e Giovanni Maria Varano vds. J.E. LAW, Relazioni dinastiche tra i Della Rovere e i Varano, in B. Cleri e altri (a cura di), "I Della  Rovere nell'Italia delle corti", vol. I (Storia del Ducato), pp. 21-34, alle pagg. 23-25.

[45]A. POLVERARI, Monteporzio e Castelvecchio nella storia, Urbino 1980.

[46]Il testo della bolla con cui il vicariato viene assegnato a Fano è in Amiani, Memorie istoriche, vol. II, Parte III, p. 122. Nel 1520 esso comprendeva i seguenti luoghi: Mondavio, Orciano, Barchi, Reforzate, Fratte, S. Andrea, Montebello, Montemaggiore, S. Costanzo, Mondolfo, S. Giorgio, Piagge, Poggio, Cerasa, S. Vito, Monterolo, Rupoli, Cavallara, Villa del Monte e Montesecco. Vds. anche Polverari, Mondavio, pp. 103-104.

[47]Lanciarini, Il Tiferno, p. 593; Vernarecci, Fossombrone, II, p. 281. Ma S. Leo e Maiolo rimasero possesso fiorentino fino al 1527.

[48]Lanciarini, Il Tiferno, pp. 463 e 534; A. ASCANI, Apecchio contea degli Ubaldini, Città di Castello 1977, p. 149 e note 19 e 21 pp. 174-176. Le quattro località erano state concesse in vicariato a Vitello Vitelli, di Città di Castello, che però rinunziò alla giurisdizione a favore della città.

[49]Marcucci, Francesco Maria I, p. 52.

[50]Marcucci, Francesco Maria I, p. 52.

[51]Marcucci, Francesco Maria I, p. 52.

[52]Marcucci, Francesco Maria I, p. 52. In base alla capitolazione sottoscritta da Francesco Maria con Pesaro il 22 dicembre 1521 Novilara, feudo di Baldassarre Castiglione (che si era schierato con Lorenzo de' Medici), tornava alla città (Olivieri, Novilara, p. 68).

[53]Marcucci, Francesco Maria I, p. 53; Law, Relazioni dinastiche, p. 26 (entro il 5 gennaio 1522).

[54]Marcucci, Francesco Maria I, pp. 53-65; Polverari, Senigallia nella storia, vol. III, Senigallia 1985, p. 60.

[55]Olivieri, Monimenta Feretrana, p. 299.

[56]F.V. LOMBARDI, La contea di Carpegna, Urbania 1977, p. 123. Per Marcucci, Francesco Maria I, p. 68 ss. si tratta di 11.000 uomini, di cui 2300 svizzeri)

[57]Olivieri, Monimenta Feretrana, 299-305 (Penna); F.V. LOMBARDI, La contea di Carpegna, Urbania 1977, p. 123; Marcucci, Francesco Maria I, p. 76. Il conte Giovanni di Carpegna, nella recente guerra, si era schierato con Francesco Maria; il suo consanguineo Francesco di Gattara con i fiorentini.

[58]Marcucci, Francesco Maria I, p. 71.

[59]Olivieri, Monimenta Feretrana, p. 305; Marcucci, Francesco Maria I, pp. 76-77. Nel 1527 Francesco Maria ottenne spontaneamente dai Fiorentini le due rocche di S. Leo e Maiolo per aver sedato dei tumulti tra la Repubblica e i Medici (Olivieri, Monimenta Feretrana, pp. 307-9).

[60]Lanciarini, Il Tiferno, p. 680; Turchini, Il Ducato di Urbino, p. 6. Non ebbe analogo successo l'occupazione di Rimini, effettuata da Sigismondo Malatesta, figlio di Pandolfo, il 27 maggio 1522, che si concluse, dopo circa un anno di occupazione, con l'esilio del Malatesta e l'esecuzione di suoi partigiani

[61]Marcucci, Francesco Maria, pp. 80-81.

[62]C.H. CLOUGH, La successione dei Della Rovere nel Ducato di Urbino, in B. Cleri e altri (a cura di), "I Della Rovere nell'Italia delle corti", vol. I (Storia del Ducato), Urbania 2002, pp. 35-62, alle pagg. 57-60.

[63]Scotoni, La giovinezza, p. 38. In quell’anno avvenne la seconda campagna di Solimano contro l’Austria: l’esercito turco diretto a Vienna (già assediata nel 1529) fu però fermato per quasi tre settimane, fino al 28 agosto, dalla piccola guarnigione di Guns e il sultano deciso di non continuare la campagna, anche perché nel frattempo la guarnigione di Vienna era stata rafforzata da milizie italiane, tedesche e spagnole: vds. V.J. PARRY, L’Impero Ottomano (1520-1566), in G. R. Elton (a cura di), “Storia del Mondo Moderno” (The new Cambridge Modern History), Milano 1967, p. 669.

[64]Ugolini, Storia dei Conti e Duchi di Urbino, II, p. 252, nota 3.

[65]Amiani, Memorie istoriche, II, pp. 128-129; Bertini, L'ordine pubblico a Fano, p. 18.

[66]Amiani, Memorie istoriche, II, p. 135. Sia il papa sia il Duca di Urbino erano alla presa con i Lanzichenecchi che, nel maggio di quell'anno, avevano messo a sacco Roma.

[67]Amiani, Memorie istoriche, II, p. 136.

[68]Amiani, Memorie istoriche, II, pp. 138-140.

[69]Amiani, Memorie istoriche, II, p. 140.

[70]Amiani, Memorie istoriche, II, pp. 140-141.

[71]Amiani, Memorie Istoriche, pp. 141-142; Bertini, L'ordine pubblico, p. 19.

[72]Amiani, Memorie istoriche, II, p. 147. Nuovo tentativo di Mattia Varano, facendo leva su Fano, nel 1535.

[73]Amiani, Memorie istoriche, II, p. 147. All'inizio del 1536 fu tolto a Fano il dominio su Mondaino e Montefiore, restituite però alla città nel 1538.

[74]Amiani, Memorie istoriche, II, pp. 145-147; Bertini, L'ordine pubblico, pp. 22-25.

[75]Law, Relazioni dinastiche, p. 28; Ugolini, Storia dei Conti e Duchi di Urbino, II, p. 243 (che riporta la data del 12 settembre 1527). Giulia Varano era duchessa di Camerino con approvazione papale dal 25 novembre 1526.

[76]Ugolini, Storia dei Conti e Duchi di Urbino, II, p. 251.

[77]Law, Relazioni dinastiche, p. 29; Ugolini, Storia dei Conti e Duchi di Urbino, II, p. 251. La situazione era particolarmente confusa anche perché un gruppetto di signori spodestati (Malatesta, Baglioni), tra cui anche Mattia Varano, cercavano di approfittare dell'interregno per rioccupare i loro Stati.

[78]Law, Relazioni dinastiche, p. 30; Ugolini, Storia dei Conti e Duchi di Urbino, II, p. 252; Maria Grazia TACCHI, Guidobaldo II della Rovere e i suoi rapporti con la Spagna, Tesi di laurea, Urbino, a.a. 1968/69, p.  101.

[79]Marcucci, Francesco Maria I, p. VI.

[80]Ugolini, Storia dei Conti e Duchi di Urbino, II, p. 254; Clough, La successione, nota 146, pp. 61-62.