Capitolo XX

 

Francesco Maria II della Rovere

 

Salito al potere, Francesco Maria II ridusse le tasse, ordinò la distruzione della rocca di Urbino, concesse un’amnistia, licenziò diversi ministri del padre[1]. Si dimostrò, negli anni successivi, amministratore più accorto (ma anche signore meno munifico) del padre: furono fatti severi risparmi nell’amministrazione e, nel 1580, drasticamente ridotto il disavanzo statale (quello che Guidubaldo II aveva lasciato alla sua morte ammontava a 150.000 scudi) con la vendita del Ducato di Sora, che i Della Rovere possedevano nel Regno di Napoli, a Giacomo Boncompagni (figlio di papa Gregorio XIII) per 120.000 scudi[2].

 

La caduta di Antonio Stati e di Pietro Bonarelli

I primi mesi del nuovo governo si caratterizzarono per la caduta dei due più importanti uomini di corte di Guidubaldo, accusati dal nuovo duca di aver attentato alla sua persona quand’era principe: Antonio Stati, conte di Montebello e Pietro Bonarelli, marchese di Orciano[3].

Alla morte di Guidubaldo II i due erano stati prudentemente allontanati dalla corte: il primo aveva ricevuto da Francesco Maria il compito di recarsi dall’Imperatore a comunicare la triste notizia; il secondo, con lo stesso incarico, era stato inviato nel Regno di Napoli e in Sicilia[4].

Tornato i due dai loro viaggi, lo Stati aveva detto, durante un banchetto (23 novembre), parole giudicate offensive nei confronti del nuovo duca[5].

Il 31 dicembre 1574 fu chiamato a corte, arrestato e condotto nella rocca di Pesaro; Pietro Bonarelli, avuta notizia dell’arresto del cognato, riuscì a fuggire dalla città[6]. Subito fu processato in contumacia e condannato alla pena capitale[7]. La sentenza, “che è una lunga serie di affermazioni non documentate, né provate e nemmeno lontanamente motivate”, fu pubblicata il 13 aprile 1375[8].

Nel frattempo la giustizia ducale si interessò anche di Ippolita di Montevecchio, moglie di Pietro Bonarelli, che fu arrestata il 9 gennaio 1575 insieme alla sua cameriera: le due donne furono condannate per falsificazione di testamento[9].

Il 28 aprile 1581 fu pronunziata infine una seconda sentenza di morte contro Pietro Bonarelli sulla base delle informazione dei complici e del conte di Montebello, che avevano accusato il Bonarelli d’esser a conoscenza della congiura contro il Duca e di volersi vendicare di fedeli ministri del duca[10].

Le condanne a morte non sortirono però alcun effetto e il Bonarelli continuò a spostarsi negli anni successivi tra le corti italiane, “coprendo d’infamia il comportamento del suo persecutore”[11].

Il conte di Montebello era nel frattempo nella rocca di Pesaro, quasi dimenticato dai magistrati ducali: fu interrogato tre volte nel 1575 e una volta, due anni dopo, nel 1577. Ritornò quindi davanti ai giudici nel novembre 1580. In sei anni, quattro interrogatori e su campo nettamente determinato: nel primo sono in questione i noti propositi omicidi attribuiti al duca Guidobaldo, nel secondo la ricettazione di banditi, nel terzo la detenzione di armi vietate; il quarto...si riferisce a qualche episodio della vita di rocca”[12]. “Questa lentezza, la quale contrasta singolarmente colle pressioni che per il disbrigo del processo si facevano dall’Imperatore e da quasi tutte le corti italiane, è prova evidente che l’istruttoria brancolava nel vuoto, senza sapere su quali basi concretare l’accusa e in che modo arrivare ad una soluzione qualunque”[13].

Con la connivenza del Pontefice, cui il duca offerse, nell’aprile 1580, l’acquisto del ducato di Sora per un suo familiare, furono quindi arrestati nello Stato pontificio i testimoni di cui la giustizia ducale aveva bisogno per terminare il processo e subito consegnati alle autorità ducali[14]. Uno di costoro, un certo Pier Simone Bartolucci, confessò sotto tortura aver avuto ordine dallo Stati, nel 1563, di organizzare una spedizione contro un gentiluomo romano, un tal Quinzio Marcellino, e di aver sentito pronunciare dallo Stati “ragionamenti sediziosi”. Anche gli altri due arrestati, posti sotto tortura, accusarono il conte di Montebello di quest’ultimo reato[15].

Lo Stati fu quindi richiamato davanti ai giudici il  14 novembre 1580 e gli interrogatori, intramezzati da frequenti minacce, continuarono senza tregua per due mesi, sino al 18 gennaio 1581... Egli serbò un contegno così calmo e sereno, dimostrò una tale padronanza di se stesso, un equilibrio così perfetto di tutte le sue facoltà da sconcertare per un pezzo i suoi inquisitori”[16]. Il 7 e l’8 dicembre fu quindi torturato ma non confessò naturalmente ciò che non aveva fatto. Fu richiamato il 10, ma resistette ancora. Infine, “giudicando senza dubbio una pronta morte preferibile a quel lungo martirio, con parole sconnesse e nelle quali apparisce evidente la suggestione, ammise di aver avuto in animo di uccidere il duca e di valersi all’uopo del concorso di altre persone, rifugiandosi poi a Venezia – ma aggiunse che l’inaspettata cattura gli impedì di attuare il suo disegno”[17].

La confessione fu subito strombazzata ai quattro venti; la sentenza definitiva fu infine pronunciata il 31 gennaio 1581 e venne eseguita all’alba del giorno successivo. Lo Stati fu condannato alla forca (sentenza poi “mitigata” dal duca e sostituita con la decapitazione); tutti i suoi “complici” vennero impiccati[18].

Anche la contessa Francesca di Montebello fu condannata a morte (in contumacia) e alla confisca di tutti i beni lo stesso giorno della morte del marito[19].

 

Alfonso Piccolomini e Giovanni Tomasi

Tra le infeudazioni di Francesco Maria II meritano di esserne ricordate due: i castelli di Monte Rado, Ripe e Tomba, nel Senigalliese, confiscate al Bonarelli, furono concessi nel 1578 ad Alfonso Piccolomini, duca di Montemarciano[20]; Montebello, ex possesso dello Stati, venne assegnato il 24 settembre 1581 ad un favorito del Duca, Giovanni Tomasi[21]. I due personaggi furono responsabili in quegli anni di efferati delitti sia nella nostra provincia sia in altri luoghi dell’Italia centrale[22].

L’amicizia tra i due risaliva almeno al dicembre 1576 quando fu ucciso a Roma, dal Piccolomini (con la connivenza del Tomasi), il cav. Sinibaldi da Osimo, condannato a morte dalla giustizia ducale ma, in quanto suddito papale, non estradabile. La complicità del governo ducale era a tutti evidente[23]. Da questo momento il Piccolomini fu “in più delitti complice scellerato di Giovanni de’ Tommasi, che altri ne commise per propria conto, coperti dall’ombra indulgente del duca”[24]. Nel settembre 1579 fu ucciso a Pesaro da sgherri del signore di Montemarciano il cav. Zerbino Ondodei, un pessimo soggetto immemore dei benefici ricevuti da Francesco Maria II. Anche in questo caso il Tomasi aiutò i sicari[25]. Nell’ottobre 1579 un pugno di banditi del Piccolomini entrò a Montebello (feudo dello Stati, allora ancora in carcere) e  uccise il vicario del castello e suo nipote[26].

Se il comportamento del Duca di Urbino era particolarmente indulgente, lo fu meno quello delle autorità pontificie che, nel 1578 assediarono e rasero al suolo la rocca di Monte Marciano[27]. Qualche anno dopo, nel 1583, ci fu una vera e propria battaglia, lungo il confine tra Romagna e Ducato di Urbino, tra gli sgherri del Piccolomini e le milizie pontificie[28].

Il Tomasi fu poi scalzato dalla sua posizione a corte da Giulio Cesare Mamiani, di nobile famiglia parmense, aggregato alla nobiltà pesarese nel 1581, nominato conte di Sant’Angelo in Lizzola il 4 aprile 1584[29].

In quell’anno, nel mese di giugno “fu amazzato il capitano Giovanni Maria Baldinazzi d’Augubbio vice duca in Senegaglia, nemico di detto signore de Monte Marzano”[30]. Il Piccolomini nel frattempo era stato perdonato dal papa per i delitti commessi e si era trasferito a Pesaro “per essere ivi la signora Ippolita Pichi sua moglie allevata in questa corte dal serenissimo duca d’Urbino”[31]. Durante questa permanenza, circondato dai suoi bravi si scontrò con importanti personaggi di Pesaro e fu coinvolto in fatti di sangue[32], tanto che il Duca si stancò della situazione e, allontanatosi il Piccolomini dalla città[33], fece arrestare il Tomasi[34], che, processato per omicida seditioso et mal servitore del suo padrone, fu decapitato nel gennaio 1586[35].

Il Duca di Montemarciano avrebbe continuato ancora per qualche anno a compiere delitti (e a suscitare apprensione nella provincia)[36]; poi, il 4 gennaio 1591, fu arrestato in Romagna da truppe del Granduca di Toscana[37], portato a Firenze e decapitato.

 

Il grande banditismo

Il fenomeno del banditismo, particolarmente grave negli ultimi due decenni del secolo anche per la crisi economica allora in atto, coinvolse nobili e intere comunità della nostra provincia.

Nel settembre 1581 furono arrestati i conti Federico e Flavio Ubaldini per aver offerto asilo ai banditi[38].

Due anni dopo problemi si presentarono Ripalta, castello del Fanese sul confine del Ducato di Urbino, che fu occupato da delinquenti locali e forestieri per tutto l’inverno 1583-1584. Solo nell’estate successiva, dopo che era stato respinto un assalto delle milizie fanesi nel marzo, grazie a rinforzi inviati dal Commissario generale per le armi pontificie, il castello fu preso: una parte dei banditi rimase uccisa negli scontri, gli altri furono giustiziati a Fano[39].

La situazione peggiorò dopo la terribile carestia degli anni 1590-1591, in cui il Ducato ebbe un vero e proprio tracollo demografico[40]. Il Duca cercò di aiutare le comunità dello Stato a comprar grano[41], ma la carestia era diffusa in tutta Italia e in mezza Europa e non fu sempre possibile realizzare quanto si era prefissato.

In queste condizioni il fenomeno del banditismo, endemico nelle zone di confine, crebbe enormemente e si moltiplicarono le bande, anche numerose, che uccidevano, rubavano, taglieggiavano.

Le autorità ducali fecero ricorso ad ogni mezzo: trasferimento forzato di parenti di banditi in zone lontane, coprifuoco, creazione di “corpi speciali” di repressione, inasprimento delle pene per i favoreggiatori, creazione di una rete di informatori[42]. Tra la fine del secolo e l’inizio del successivo, pertanto, grazie ad un massiccio spiegamento di forze effettuato anche dallo Stato della Chiesa e dal Granducato di Toscana, il fenomeno rientrò nelle dimensioni abituali.

 

La capitolazione con la Spagna; le milizie urbinati in Fiandra e Borgogna

Nel frattempo, l’8 novembre 1582, Francesco Maria II era riuscito a rinnovare, dopo otto anni di trattative lunghe e laboriose (aveva a lungo sollevato ostacoli la Curia romana, pretendendo che il Duca, in qualità di vassallo della Santa Sede, non potesse essere assunto da potenze straniere senza permesso del Papa), la capitolazione che il re di Spagna aveva concesso al padre: furono da questo momento, per trent’anni, arruolati al servizio della Spagna  da 7.200 a 12.000 uomini in cambio di 12.000 scudi d’oro e della protezione dello Stato da parte del sovrano iberico[43].

Qualche anno dopo il primo impegno militare: fu inviata nel 1587 una compagnia di 400 fanti in Fiandra al comando del capitano Silla Barignani, che sarebbe ritornato a Pesaro dopo sette anni di guerra[44].

Il buon successo ottenuto spinse la Spagna a richiedere, nel 1595, un “terzo” (un contingente di 3000 soldati) per la guerra in Borgogna, dove il comandante spagnolo, don Ferdinando Falasco, governatore di Milano, “capitano di poca levatura, di carattere presuntuoso e d’animo diffidente”, stava passando di sconfitta in sconfitta[45].

Le operazioni d’arruolamento cominciarono agli inizi di maggio, dopo l’arrivo del Commissario Generale Emmanuele de’ Pazzi[46]; i tremila uomini partirono quindi alla volta di Milano, dove dovevano essere armati, passati in rassegna e spediti in  Borgogna, sotto la guida del marchese don Alfonso d’Avalos,  nella prima metà di luglio 1595[47]. Arrivati però a Milano, furono per diverso tempo bloccati, in attesa delle armi (e delle paghe) a Cotogno, dove i soldati cominciarono a stancarsi e avvennero diversi episodi di diserzione[48].

Finalmente, dopo momenti di tensione (si parlò anche di ammutinamento), che gli Urbinati attribuirono alla cattiva fede dei funzionari spagnoli (mentre costoro incolparono in particolare don Alfonso, che “a dire il vero, in tutto il carteggio non fa figura di un uomo molto energico”)[49], gli urbinati partirono (fine agosto) per la Borgogna: il Terzo si era ridotto a 2.534 soldati[50].

Arrivati in Borgogna (inizio ottobre), dopo altre soste sulla via, trovarono la situazione già compromessa: la città di Leonson, in cui erano stati inviati, si stava arrendendo ai francesi, il malcontento serpeggiava nell’armata spagnola, i nemici attaccavano vigorosamente. Il 17 ottobre, per i decessi e, soprattutto, per le malattie e le diserzioni, il Terzo si era ridotto a 1.355 uomini; il 30 novembre a 985, senza che i soldati si fossero coperti di gloria in qualche scontro[51].

Conclusa la tregua in Borgogna, gli Spagnoli pensarono di spedire il Terzo (o quel che ne restava), in Fiandra e, avutone autorizzazione da Francesco Maria, comunicarono ciò agli urbinati il 30 ottobre. La decisione suscitò malcontento tra i soldati e continuarono le diserzioni: nello stesso giorno della rassegna di tutto l’esercito (che doveva appunto seguire il cardinale arciduca Alberto, nuovo governatore dei Paesi Bassi, in quella provincia), il 3 gennaio 1596,  fuggirono addirittura cento dei migliori soldati, mentre il D’Avalos, stanco e sfiduciato, consigliava di sciogliere il Terzo e di esonerarlo dal Comando[52].

Lo scioglimento venne effettuato dallo stesso cardinal Alberto e gli urbinati, nel mese di febbraio, ritornarono mestamente in Italia. Rimasero a combattere in Fiandra il D’Avalos e alcuni suoi capitani, tra cui il Conte di Carpegna, che fu ferito il 3 agosto 1596 presso Hulst[53].

La capitolazione con il re di Spagna fu comunque rinnovata nel febbraio 1599, a buone condizioni (il compenso fu aumentato a 15.000 a scudi)[54].

Nuove milizie furono quasi subito richieste ad Urbino: nell’aprile 1602 partirono due compagnie di fanteria per la Fiandra; una di queste, prestato servizio per tre anni, sarebbe ritornata nel Ducato nel marzo 1605[55]. Ci furono diversi problemi per reperire il numero di uomini sufficienti per formare il corpo di spedizione: evidentemente i vantaggi un tempo connessi con tale servizio erano ormai inferiori agli svantaggi[56].

 

Il secondo matrimonio di Francesco Maria II

L’11 febbraio 1598 moriva Lucrezia d’Este, moglie di Francesco Maria II: i rapporti tra i due erano sempre stato freddi e  Lucrezia era da tempo tornata a vivere a Ferrara[57]. Si aprivano ora nuovi scenari perché, non avendo il Duca eredi diretti, lo Stato sarebbe stato annesso, alla sua morte, dalla Camera Apostolica (in quello stesso anno una situazione analoga – la mancanza di figli legittimi – aveva spinto papa Clemente VIII ad occupare Ferrara, anch’essa feudo pontificio, togliendola agli Este): ciò preoccupava soprattutto gli abitanti del Ducato che avrebbero perso innegabili vantaggi (buona amministrazione; possibilità di costante colloquio con il signore) e che avrebbero presumibilmente ricevuto qualche svantaggio, soprattutto in campo fiscale.

Dato che il pontefice avrebbe accolto non troppo favorevolmente un secondo matrimonio del Duca, costui agì tortuosamente: inviò, il 6 giugno 1598, una lettera a tutte le comunità dello Stato, in cui sosteneva che, pur conoscenza il desiderio dei suoi popoli di aver continuazione e mantenimento di questa nostra casa, la presenza di un governatore ecclesiastico avrebbe comportato innegabili vantaggi (oltre l’essere fuori delle strettezze, che pur troppo al presente vi sono, dell’estrazione de’ grani, Sali, olij ed altre cose simili, potreste anche aspettare da padrone così potente, com’è Sua Santità, molte esenzioni e comodità che da noi, benché sopra modo desiderassimo di farlo, volendo mantenere per riputazione vostra il nostro grado, non si può adempierlo); inoltre, se avesse contratto nuove nozze, la poca nostra salute e l’età in che ci troviamo avrebbero forse impedito la nascita di un erede; e, se fosse nato, avrebbe ottenuto il Ducato forse in giovane età: il governo di pupillo è cosa che suol darsi da Dio ai popoli per castigo. Soppesando vantaggi e svantaggi, i consigli comunali, riuniti senza i rappresentanti del Duca, avrebbero dovuto deliberare sulla questione e poi far pervenire il risultato della votazione al vescovo di Pesaro, mons. Cesare Benedetti, che avrebbe comunicato al Duca, tenendo segreto l’esito delle singole votazioni, solo il dato complessivo. Il Duca si impegnava a eseguire quello che i sudditi avessero deliberato[58].

Il Vescovo il 22 giugno inviò al Duca il prevedibili l’esito del “referendum”: tutti volevano che il Duca si sposasse![59] A questo punto gli sviluppi erano obbligati: Francesco Maria aveva dato la sua parola; Clemente VIII era stato messo davanti al fatto compiuto, né poteva pretendere che il Duca non mantenesse ciò che aveva promesso[60]. Fu pertanto ricercata una sposa degna della casata roveresca e, dopo qualche tempo, fu trovata in Livia, figlia di un nipote del Duca (Ippolito della Rovere, marchese di S. Lorenzo in Campo, figlio naturale del cardinale Giulio della Rovere, fratello di Guidubaldo II): la promessa sposa aveva 14 anni, il duca 51[61].

Le comunità del ducato furono informate con lettera del 25 aprile 1599[62]; il matrimonio si celebrò a Casteldurante il giorno successivo[63].

 

La nascita di Federico Ubaldo

I rapporti tra Francesco Maria II e Clemente VIII erano in quegli anni abbastanza tesi: le manovre di Roma per impedire la capitolazione con il re di Spagna non erano state gradite; il comportamento del Della Rovere in occasione del suo secondo matrimonio aveva suscitato il disappunto del Papa. Il mancato arrivo del sospirato erede e una grave malattia di Francesco Maria II nel 1603 spinsero il Pontefice, che riteneva imminente la devoluzione del Ducato, ad organizzarne l’occupazione, affidando i vari compiti ai legati della Marca, dell’Umbria e della Romagna. Il Duca però si riprese e l’episodio aumentò la diffidenza nei confronti della Sede Apostolica e la paura per la sopravvivenza dello Stato[64].

Crescevano nel frattempo i dissapori all’interno della famiglia ducale, in modo particolare tra il Duca ed i fratelli di Livia, il marchese Ippolito e monsignor Giuliano che, nel 1602, furono banditi dallo Stato perché si intromettevano nelle faccende di governo (ma nella sua corrispondenza il Duca sottolinea soprattutto i loro pessimi costumi): furono poi perdonati per intercessione della Duchessa, ma i rapporti rimasero comunque freddi. In quello stesso anno era stato confinato a Mombaroccio, suo feudo, un altro parente del Duca, suo cognato Guidubaldo del Monte[65].

Finalmente il sospirato erede nacque, tra indicibili manifestazioni di gioia popolare, il 16 maggio 1605: fu dato al bimbo il nome di Federigo Ubaldo (il secondo nome in onore del patrono di Gubbio, commemorato in  quel giorno)[66].

 

Il Consiglio degli Otto

Il Duca di Urbino non era più giovane ed una sua improvvisa morte avrebbe creato non pochi problemi all’erede, che non era in grado di governare per la giovane età: pertanto, per coinvolgere le popolazioni nella sopravvivenza dello Stato e della dinastia (e per impedire ingerenze da parte della Santa Sede)[67], nel gennaio 1607 Francesco Maria creò un consiglio, detto “degli Otto”, formato dai rappresentanti delle città (Urbino, Pesaro, Cagli, Fossombrone, Senigallia, Gubbio) e province (Montefeltro e Massa Trabaria) dello Stato, con il compito di governare il Ducato in caso di sua morte (vivendo il Duca, con la funzione di suo consiglio)[68].

Non usuale in quell’età, questa forma di governo collegiale prevedeva un forte coinvolgimento dei consigli cittadini e provinciali, che dovevano eleggere tre o quattro candidati, uno dei quali sarebbe stato scelto dal Duca. La nuova magistratura avrebbe avuto sede nella città di Urbino[69]. I consiglieri prescelti furono Malatesta Malatesti per la città di Urbino, Piersimone Buonami per Pesaro, il conte Girolamo Cantalmaio per Gubbio, Giacomo Arsilli per Senigallia, Francesco Carnevali per Fossombrone, Antonio Brancuti per Cagli, messer Giovan Battista Mazzarini per il Montefeltro e messer Stefano Minio per la Massa Trabaria[70].

Il consiglio sarebbe rimasto in vita fino all’11 settembre 1613[71], quando, con il fidanzamento tra Federico Ubaldo e Claudia de Medici, figlia del granduca Cosimo II (pubblicato nel 1609[72], confermato nel 1612[73]), l’isolamento era superato e il pericolo di colpi di mano da parte della Santa Sede trascurabile[74].

 

Le milizie urbinate di nuovo in guerra

In quegli anni si accendevano focolai di guerra in Italia: il duca di Savoia attaccava il Monferrato e contro di lui scendeva in guerra la Spagna[75]: furono pertanto inviate, nel 1615, milizie in Lombardia, sotto la guida del conte di Carpegna, per combattere contro l’esercito sabaudo[76]; altre truppe furono poi inviate nel 1617[77] e nel 1618[78].

Un contingente militare fu poi mandato in Fiandra, sotto la guida del conte Ottavio Mamiani, nel 1622[79].

 

Federico Ubaldo

Nel frattempo era giunta l’età delle nozze per il principe Federico Ubaldo, che aveva fino a quel momento evidenziato un carattere non eccessivamente docile e responsabile. Il matrimonio con Claudia de Medici fu celebrato il 29 aprile 1621 e fu ben presto allietato dalla nascita di una figlioletta, cui fu messo il nome di Vittoria, il 7 febbraio 1622[80]. Il giovane principe fu progressivamente aggravato di incarichi di governo[81], ma  l’amore per i commedianti, la relazione con un’attrice, chiamata “l’Argentina”, i bagordi  e la vita sregolata, oltre a scandalizzare i sudditi, spinsero l’ultimo Della Rovere verso una precoce ed improvvisa morte, il 29 giugno 1623[82].

 

Verso la devoluzione

A questo punto la devoluzione era quasi inevitabile: Francesco Maria II, settantaquattrenne, ricostituì il Consiglio degli Otto (3 luglio 1623) e mandò la nipotina Vittoria a Firenze, dove fu fidanzata al futuro granduca di Toscana Ferdinando II[83].

Quest’azione non piacque al nuovo papa Urbano VIII, entrato in carica in quell’anno: c’era il rischio che i Medici presentassero rivendicazioni sullo Stato di Urbino e su una parte di esso[84]. Furono pertanto fatte forti pressioni sul Duca affinché cedesse il governo prima della sua morte ad un rappresentante della Curia. Nel frattempo il vescovo di Rimini Cipriano Pavoni insisteva perché Francesco Maria II scrivesse una lettera nel quale riaffermasse la propria fedeltà alla Chiesa; il Papa pretendeva che le rocche del Ducato gli giurassero fedeltà; milizie pontificie si muovevano minacciose ai confini; gli stessi  Medici si accordavano con il Pontefice per il passaggio dei beni allodiali (privati) alla piccola Vittoria[85]

Le trattative tra il Duca e Urbano VIII furono lunghe e difficili e si conclusero solo il 30 aprile 1624: Francesco Maria riconosceva, alla sua morte, la devoluzione del suo Stato che, nel frattempo, sarebbe stato amministrato da un uomo di fiducia della Curia; la nipotina Vittoria era dichiarata unica erede per i beni allodiali[86]. Nel dicembre 1624 il Duca prese pertanto commiato dai suoi sudditi, informandoli che avrebbe conferito ad un governatore ecclesiastico gli affari amministrativi, civili e criminali e si sarebbe riservato solo il diritto di giudicare qualche causa, a sua discrezione[87].

Il 1 gennaio 1625 si presentava quindi a Francesco Maria II il nuovo governatore pontificio, monsignor Berlinghiero Gessi, che sostituì il Duca nel governo dello Stato[88]: fu subito abolito il Consiglio degli Otto[89]. Nel maggio 1627 monsignor Gessi fu sostituito da monsignor Lorenzo Campeggi, vescovo di Cesena e poi di Senigallia[90]. Il vecchio Duca, ormai ritiratosi a vita privata, sarebbe morto ad Urbania il 28 aprile 1631, all’età di 83 anni[91].

 

La “peste evitata”

Gli ultimi anni del governo (nominale) di Francesco Maria II furono interessati dai rumori preoccupanti del progredire dell’epidemia di peste (di manzoniana memoria) che, dilagata nella Pianura Padana nel 1629, aveva coinvolto anche Romagna e Toscana (si registrarono diversi casi a Casale, nel vicariato di Sestino, al di qua degli Appennini, tra la fine di dicembre 1630 e i primi mesi del 1631). Grazie anche ai rigorosi provvedimenti presi (anche al card. Antonio Barberini, nipote del papa, venne impedito l’ingresso nel territorio pesarese perché proveniente da zona a rischio), l’epidemia non interessò tuttavia il territorio della nostra provincia[92].



[1]Matteo Sabbatini, Memoria istoriale, in "Pesaro città e contà", 4, 1994, pp. 53-54 (abolizione dei dazi sul vino, dono di 20.000 scudi ad Urbino, smantellamento della fortezza che dentro alla cità il duca morto, nella rebellione che fece quel popolo alli mesi passati, fece fare, e donò quel sito alli scapuzzini); L. CELLI, Tasse e rivoluzione (storia italiana non nota del sec. XVI - Storia della sollevazione di Urbino contro il duca Guidubaldo II della Rovere), Torino 1892, p. 254. L'editto di Francesco Maria II, del 13 ottobre 1574, con cui abolisce i dazi imposti da Guidubaldo II è in F. UGOLINI, Storia dei Conti e Duchi di Urbino, Firenze 1859, vol. II, doc. n. 23, pp. 530-531.

[2]Matteo Sabbatini, Memoria istoriale, p. 81; Ugolini, Storia dei Conti e Duchi di Urbino, II, pp. 390-391; Celli, Tasse e rivoluzione, p. 255.

[3]Celli, Tasse e rivoluzione, p. 61.

[4]G. SCOTONI, La giovinezza di Francesco Maria II e i ministri di Guidobaldo della Rovere, Bologna 1899, p. 153.

[5]Processo Stati, ad 90: Credono costoro che non voglia esser amico di mio cognato, ma s'ingannano, perchè voglie esserli amico et correr alla medesima fortuna; et quando bisognasse, potremo metter insieme 600 et 700 uomini, che havemo mezzo un Stato (Scotoni, La giovinezza, p. 155, n. 1).

[6]Scotoni, La giovinezza, pp. 155-158.

[7]Scotoni, La giovinezza, p. 158 ("Con una procedura così sbrigativa e così clamorosa si otteneva il doppio scopo d'impadronirsi subito del ricchissimo patrimonio del Bonarelli, provenendo agli imbarazzi finanziari in cui versava in quel momento il duca, e di rendere più facili le pratiche di estradizione, tosto avviate in tutte le direzioni").

[8]Scotoni, La giovinezza, p. 167-172. Secondo lo Scotoni si trattava di vendetta manifesta: il conte Pietro non era uno stinco di santo, ma non era sicuramente diverso, per qualità, difetti e colpe, dai signorotti del suo tempo.

[9]Scotoni, La giovinezza, pp. 159-170. "La sentenza contro le due donne è del 30 luglio 1575 e diventò esecutiva solo il 15 novembre: la contessa, previa cauzione di diecimila scudi, era condannata alla relegazione per dieci anni a Torre Ravegnana, a duemila scudi di danni e alla confisca dei beni ereditati dalla Varano. Per la Marianna si decretava la pubblica fustigazione e l'esilio perpetuo". Per interessamento di diverse signori italiani però la contessa Ippolita riuscì, dopo qualche tempo, a raggiungere il marito in esilio.

[10]Scotoni, La giovinezza, pp. 232-233. Sulla vicenda vds. anche Matteo Sabbatini, Memoria istoriale, pp. 58-59: E ritornati che furno dalle loro ambasciarie, il signor duca fece ponere in rocca di Pesaro il conte de Monte Bello, ma il conte Pietro se ne fugì via, onde processato in contumacia, imputato di crimine lese maiestatis contra la persona del singor duca novo,  fu condennato alla forca, et in questo mezzo gli furno dal detto signor duca confiscati li suoi castelli Orzano e Barchi e tutto il resto de sua robba, e postogli taglia de duoi millia scudi chi lo amazza. E la sua consorte, imputata di aver fatto fare un testamento falso per avere la robba della signora Cornelia Varana, fu processata con una certa madonna Adriana da Camerino, e condennata fu questa alla frusta, quale gli fu data alli 16 de novembre 1575 e sbandita dal stato di sua eccellenza illustrissima; e la moglie del conte Pietro, quale si addimanda la signora Ippolita Bonarelli Monte Vecchie, fu privata de tutta la robba della signora Cornelia predetta e condennata in duoi millia scudi, et anco confinata per 10 anni alla Torre, castello della signora Pantasilea Baglioni sua madre. Il conte de Monte Bello persino al giorno d'oggi sta in rocca di Pesaro e non si sa ciò che sarà de casi suoi

[11]Scotoni, La giovinezza, p. 210.

[12]Scotoni, La giovinezza, p. 209. La polizia ducale riuscì a scoprire, nei primi mesi del 1577, che il conte di Montebello aveva corrisposto con la moglie grazie alla complicita del castellano della rocca, tale Santucci, dei fratelli di costui, di alcune guardie carcerarie (Ivi, pp. 212-213; vds. anche p. 215: "Non possiamo precisare la sorte che ebbero i fratelli Santucci e gli altri molti impigliati con loro nella stessa rete: la sentenza manca nelle carte processuali, ma non ci mancano elementi per indovinarla; il conte, quando nomina i Santucci nei suoi ultimi interrogatori del 1580, ne discorre come di persone che più non esistevano").

[13]Scotoni, La giovinezza, pp. 209-210 ("La enormità di questo ritardo, se non era cosa insolita per quei tempi, non era però tale da passare inosservata, perchè colpiva un personaggio troppo eminente e troppo in vista").

[14]Scotoni, La giovinezza, pp. 220-221.

[15]Scotoni, La giovinezza, pp. 221-227. Tutte queste confessioni naturalmente non avevano nulla in comune l'una con l'altra e non erano confortate da alcuna prova.

[16]Scotoni, La giovinezza, pp. 227-228.

[17]Scotoni, La giovinezza, p. 229.

[18]Scotoni, La giovinezza, p. 231.

[19]Scotoni, La giovinezza, pp. 233-234: "Nello stesso giorno e con altra sentenza venne condannata alla pena di morte e alla confisca di tutti i suoi beni personali anche la contessa Francesca di Montebello, perchè non habens Deum ante oculos, sed potius inimicum humanae naturae aveva corrisposto col marito in carcere - perchè aveva allontanato dal feudo Pier Simone - perchè aveva ricevuto e spedito messi e lettere al fratello, capitalmente bandito, a Novellara - e perchè, fuggendo da Montebello, aveva asportato gemme preziose e mobili di gran valore, che in previsione della confisca erano posti sotto sequestro. Quest'atto, che supera tutti gli altri per mostruosa iniquità, lumeggia così bene il torvo carattere di Francesco Maria II, che non crediamo di dover aggiungere una parola di più".

[20]B.G. ZENOBI, Le aree feudali del Ducato di Urbino tra XV e XVIII secolo, in S. Anselmi (a cura di), "La montagna tra Toscana e Marche. Ambiente, territorio, cultura, società dal medioevo al XIX secolo", Milano 1985, pp. 147-165. a pag. 154, citando in nota Archivio di Stato di Pesaro, Infeudationes, vol. 8496, cc. 200 v ss, 29 agosto 1578; B.G. ZENOBI, Lo spessore e il ruolo della feudalità, in G. Cerboni Baiardi, G. Chittolini, P. Floriani (a cura di), "Federico da Montefeltro. Lo Stato, le arti, la cultura", vol. I, Lo Stato, Roma 1986, pp. 189-212, a pag. 199.

[21]Scotoni, La giovinezza, pp. 281-283.

[22]"Al Piccolomini non mancarono mai sul territorio ducale sussidi, carezze ed impunità" (Scotoni, La giovinezza, p. 281).

[23]Scotoni, La giovinezza, pp. 283-284.

[24]G. VERNARECCI, Fossombrone dai tempi antichissimi ai nostri, vol. II, Fossombrone 1914, p. 367. "Nell'agosto 1579 il conte Santinelli incontrò per via il capitano P. Fr. Barignani, col quale aveva vecchi rancori e a colpi d'archibugio lo uccise. Tutti dissero subito che il fatto era avvenuto ad istigazione del Tomasi, che aveva infatti ospitato e poi salvato di suo mano l'omicida e che seguitò a tenere stretti rapporti con lui. Il duca solo ignorò tutto per molti anni" (Scotoni, La giovinezza, p. 285).

[25]Scotoni, La giovinezza, p. 285.

[26]Scotoni, La giovinezza, p. 286 (altri delitti a a pag 287 ss.).

[27]Frate Antonio RIDOLFI, Cronachetta Pesarese (edita da A. Camilli), in "Atti e Memorie di Storia Patria per le Marche", terza serie, vol III-IV (1923), pp. 170-177. alle pagg. 170-171: 1578, 28 novembre: Monte Marciano,... di cui era signore l'ill. sig. Alfonso Piccolomini, fu assediato e preso da un Commissario apostolico, il cui nome era Rettico, aquilano; fu rovinata la fortezza e molti furono fatti prigioni e manti via: tutto si dice esser per i banditi. Matteo Sabbatini, Memoria istoriale, pp. 83-84: Per il che di nuovo incominciorno a pullulare li forusciti de quali si fece capo con gran seguito il signor Alfonso Piccolomini, padrone de Monte Marzano nella Marca, perché per aver dato recappito a forusciti li fu impiccato il governatore di quel suo luoco, quale anco fu gettato a terra e quasi spianatogli e confiscatogli tutti li suoi beni che ivi aveva, che detto signore incominciò a fare scorrerie per tutto il stato de santa chiesa e facedo de molti mali.

[28]Matteo Sabbatini, Memoria istoriale, p. 84.

[29]Francesco Maria II, Diario, c. I v - p. 4 Sangiorgi: A' 4 d'aprile (1584) feci conte di Sant'Agnolo, castello nel territorio di Pesaro, Giulio Cesare Mammiano da Parma, gentilhuomo della mia camera. R. MOLINELLI, La famiglia Mamiani, in "Studia Oliveriana", n.s., vol. V (1985), pp. 11-25, a pag. 15.

[30]Matteo Sabbatini, Memoria istoriale, p. 85. Vds. anche Scotoni, La giovinezza, p. 289.

[31]Matteo Sabbatini, Memoria istoriale, p. 85; Scotoni, La giovinezza, p. 289

[32]Scotoni, La giovinezza, p. 289.

[33]Matteo Sabbatini, Memoria istoriale, p. 85: E stato che vi fu per molti mesi non però cessava d'avere prattica d'uomeni de forusciti, e sempre dietro aveva doi dozene de questi tali, e per questo e per altri particolari e perché quasi aveva posto le parti in Pesaro, per portare chi a man destra e chi alla sinistra una lunga fiezza de capelli che ciascuno si lassava crescere alle tempie, dove che sua altezza serenissima vedendo il disordine che ne potteva nassere fece per suo publico bando che forastieri in termino de tre giorni o si tagliassero detta fiezza o si levassero dal suo stato sotto pena della vita, et il simile alli sua sudditi, e che non si pottesse portare nelli capelli o beretti segno alcuno o de fiocchi, bottoni, fiori, frondi et altre simili cose; dove che detto signore de Monte Marzano si partì da Pesaro e se ne retirò a Monte Marzano con tutta la sua famiglia e seguaci

[34]Scotoni, La giovinezza, pp. 289-290. Francesco Maria II, Diario, c. I v - p. 4 Sangiorgi: A' 15 di luglio (1584) andò priggione nella rocca di Pesaro il conte Giovanni dei Tomasi. Matteo Sabbatini, Memoria istoriale, p. 89: Del mese de giugno il serenissimo nostro duca, essendo andato con tutta la sua corte ad Urbino, fece una sera sul tardi catturare dal barigello de campagna il signor conte Giovanno Tomasi da Pesaro conte di Montebello, e nel'istessa notte con grossissima guardia de soldati lo fece condurre nella rocca di Pesaro e mutò nel'istessa ora il castellano; cosa invero che molto diede da dire al mondo poi che era costui quello che governava la persona de sua altezza serenissima e tutto il stato. Fu fatto comissario sopra le cause del detto conte il dottor Corbelli da San Marino, quale del continuo fu alloggiato in rocca per più comodità del'esaminare.

[35]Francesco Maria II, Diario, c. 4 r - p. 11 Sangiorgi: A' 18 (gennaio 1586) fu tagliato il collo, nella rocca qui di Pesaro, al conte Giovanni de' Thomasi, per homicida seditioso et mal servitore del suo padrone: morì christianamente et da huomo coraggioso. Dio gl'habbia perdonato i suoi peccati; Ridolfi, Cronachetta Pesarese, p. 171: 18 gennaio 1586. All'8 hore di notte precedenti nella rocca di Pesaro fu decapitato il conte Giovanni de Thomasi da Pesaro, prima favoritissimo del duca Francesco Maria 2°, quale l'haveva fatto conte di Monte Bello. Fu per homicidi, veneni, etc. Matteo Sabbatini (Memoria istoriale, p. 90) data la morte del Tomasi all'aprile di quell'anno (Sentenziò il comissario Corbelli e condenò il conte Giovanno in pena della vita e confiscazione de suoi beni. Per molti capi fu appellato dalla parte del conte, e fu comesso la causa al signor Francesco Bellucci da San Marino quale confirmò la sentenza del Corbelli. Dove che alli 10 d'aprile 1586 fu tagliata la testa al detto conte e confiscategli tutti li suoi beni e privo della contea de Monte Bello. Fu sepellino de notte in San Domenico de Pesaro). Vds. anche Scotoni, La giovinezza, p. 292. Era il Tomasi il misterioso evaso, fortunosamente riacciuffato nell'aprile 1585? Vds. Francesco Maria II, Diario, c. 2 r - p. 6 Sangiorgi: A' 6 (aprile 1585), la notte seguente, scapparono doi priggioni d'importanza dalla rocca di Pesaro, della quale era castellano il capitano Federico Cattaldino da Cagli: agl'8 fu ripreso quel che più importava nel territorio di Montebaroccio.

[36]Vernerecci, Fossombrone, II, pp. 366-369.

[37]Ridolfi, Cronachetta pesarese,  p. 174.

[38]C. ARSENI, Immagine di Cagli, Cortona 1989, p. 140.

[39]Amiani, Memorie istoriche, II, pp. 222-223.

[40]VEGGIANI A, Variazioni climatiche e presenza umana sulla montagna tra Toscana e marche dall'alto medioevo al XIX secolo, in S. Anselmi (a cura di), La Montagna tra Toscana e Marche. Ambiente, territorio, cultura, società dal medioevo al XIX secolo, Milano 1985, pp. 25-39, alle pagg. 27 e 35. In quegli anni cominciò in tutta Europa la "piccola età glaciale", un periodo freddo e piovoso con avanzata dei ghiacciai che si sarebbe prolungato fino al 1850 e che avrebbe messo in crisi soprattutto le popolazioni della montagna.

[41]Francesco Maria II, Diario, c. 21 v - p. 47 Sangiorgi: (anno 1590) Prestai 50 mila scudi contanti gratis per un anno alle communità del Stato per comprar grani, et per altri 50 milia feci lor sicurtà sopra alcuni banchi. Ridolfi, Cronachetta pesarese, p. 171: 1591 - Fu la carestia grande da Roma a Milano. In Pesaro si vendè il grano 14 scudi e più lo staro. Il duca Francesco Maria 2° mandò in Ciccilia a farne portare, e venne una nave carica di 2000 stara.

[42]Vengono presentati da L. MARRA, Serra Sant’Abbondio. Un paese tra Mrche e Umbria, Cagli 1996, pp. 178-182 diversi provvedimenti presi nell’Eugubino contro i banditi in questo periodo: creazione di  reparti speciali per perlustrare il contado alla ricerca dei banditi (19 agosto 1580; il reparto era ancora funzionante il 5 maggio 1582; ricordato sotto altro capitano il 18 louglio 1592); divieto di uscire  dall’ora seconda di notte sino alla mattina a mezz’ora prima del levar del sole dalle città, castelli ed abitazioni (14 marzo 1591); allontanamento di parenti e domestici (25 giugno 1602; 30 luglio 1602)

[43]Francesco Maria II, Diario, c.V v - p. 1 Sangiorgi (Agl'8 di dicembre (1582) mi arrivò l'aviso come agl'8 di novembre si stabiliì in Madrid, tra il cardinal Granvela et il Maschio, la mia condotta con la Maestà del Re Cattolico, la qual fu di 12 mila scudi d'oro l'anno ed di una compagnia di gente d'arme nel Regno di Napoli, con la prottetione generale di me et cose mie) ; c. 1 r - p. 2 Sangiorgi (A' 4 di luglio (1583) mi venne la ratificazione della mia condotta, fatta dalla Maestà del Re Cattolico a' 30 di marzo); c. 1 r - p. 3 Sangiorgi (A' 10 d'ottobre giurai in mano di don Pietro di Guzmàn, fratello del Conte d'Olivares, ambasciatore in Roma per Sua Maestà Cattolica, conforme a qeullo che per la mia condotta con la Maestà Sua ero tenuto a fare). Scotoni, La giovinezza, p. 260. C.H. CLOUGH, La successione dei Della Rovere nel Ducato di Urbino, in B. Cleri e altri (a cura di), "I Della Rovere nell'Italia delle corti", vol. I (Storia del Ducato), Urbania 2002, pp. 35-62, a pag. 58 nota 125

[44]Ridolfi, Cronachetta pesarese, p. 172: 3 agosto 1587 - Partì di qua la compagnia di 400 soldati del cap. Silla Barignani verso Milano e Fiandra; quale ritornò in Pesaro 1594 alli 5 di novembre sano e famoso per sett'anni in guerra.

[45]C.A. LUMINI, Soldati urbinati alla guerra di Francia del 1595, in “Le Marche – rivista storica bimestrale”, vol. IV, fascicoli III e IV (1909), pp. 81-94, a pag. 81.

[46]Francesco Maria II, Diario, c. 37 v - p. 78 Sangiorgi (1 maggio 1595. Arrivò Manuel de Paz da Milano per la leva di 3 milia fanti in servitio del Re; partì alle 9); c. 37 v - p. 78 Sangiorgi (4 maggio 1595. Si cominciò a batter tamburo et a dar i denari per fare i 3 mila fanti sopradetti); c. 37 v - p. 79 Sangiorgi (24 giugno 1595. Arrivò Manuel de Paz per sollecitare la gente nostra acciò partisse quanto prima part'ì agl'8 di luglio); Ridolfi, Cronachetta pesarese, pp. 176-177 (4 maggio 1595 - Si cominciò a batter il tamburo et a far ispeditione di tremille fanti sotto molti capitani dello Stato del ser.mo duca Francesco Maria 2°; di tutt'i quali n'è capo e condottiero l'ill. sig. Alfonso d'Avalos; sergente generale è il cap. Caccia da Gubbio. I capitani pesaresi sono l'ill. sig. Carlo del Monte e il sig. Alessandro Farneti); Lumini, Soldati urbinati, p. 82.

[47]Francesco Maria II, Diario, c. 38 r - p. 79 Sangiorgi (7 luglio. Partì il Conte di Carpegna per andare alla guerra in Francia); c. 38 r - p. 79 Sangiorgi (15 luglio 1595. Finirono di partire le 15 compagnie de fanti che si mandarono in servitio del Re Cattolico). Ridolfi, Cronachetta pesarese, pp. 176-177 (Cominciarono a marciare il primo di luglio, e il sig. Ardovino Ardovini fu alfiere dell'ill. sig. Alfonso d'Avalos. 1 luglio 1595 - Partirono da Pesaro l'ill. sig. Carlo dal Monte e il sig. Alessandro dott. Neri, capitani di 200 fanti per uno nella spedizione fatta in questo Stato di tre mille soldati per il Re Cattolico per Borgogna contra il re di Navarra. Partì inoltre Alessandro Farneto con 200 fanti il 3 luglio; passò Fulvio Aquilini da Senigallia con 200 fanti il 4 luglio; passò il capitando Dalindo da Gubbio con 200 fanti il 7 luglio; parte Ardovino Ardovini, alfiere della compagnia, il 14 luglio); Lumini, Soldati urbinati, p. 83.

[48]Lumini, Soldati urbinati, p. 85-86. Solo nella notte tra 20 e 21 agosto ne erano fuggiti duecento. Vds. anche Marra, Serra S. Abbondio, p. 179, che presenta interessanti estratti di lettere ducali inviate al luogotenente di Gubbio: Il Duca chiede di conoscere il motivo per cui tanti precettati non sono partiti, e altri partiti sono tornati indietro (21 agosto 1595); Habbiamo inteso con infinito nostro dispiacere che molti soldati del terzo ch’a servigio del Re Cattolico si sono inviati da questo Stato pe la Borgogna, giunti che sono stati in quel di Milano, si sono partiti da loro Capitani e se ne sono ritornati a questa volta… (12 settembre 1595).

[49]Lumini, Soldati urbinati, p. 91.

[50]Lumini, Soldati urbinati, p. 89.

[51]Lumini, Soldati urbinati, p. 90.

[52]Lumini, Soldati urbinati, p. 92

[53]Lumini, Soldati urbinati, p. 93. Francesco Maria II, Diario, c. 40 v - p. 85 Sangiorgi: 31 agosto 1596. Hebbi aviso come alli 3 fu ferito sotto Hulst il Conte di Carpegna, con rottura d'una gamba

[54]Francesco Maria II, Diario, c. 47 v - p. 104 Sangiorgi: 28 febbraio 1599. Hebbi aviso come la Maestà del Re Cattolico mi haveva confermato tutto quello che il padre mi dava, e di più tre altri milia scudi l'anno. Clough, La successione, p. 58 nota 125.

[55]Francesco Maria II, Diario, c. 54 r - p. 121 Sangiorgi: 9 febbraio 1602. Arrivò il capitano Pompeo Iustiniani, sergente maggiore del terzo del marchese Spinola (scil. Ambrogio Spinola Doria, marchese de los Balbasos, uomo d'arme genovese), mandato dal Conte di Fuentes, governatore di Milano, per fare 150 fanti in questo paese;  c. 54 v - p. 122 Sangiorgi: 21 marzo 1602. Cominciarono a caminare le due compagnie d'infanteria verso Milano per Fiandra, capitani delle quali erano il capitano Francesco Baldassino et il capitano Lucantonio Abbati; c. 54 v - p. 122 Sangiorgi: 1 aprile 1602. Finirono di partire tutte le genti nostre per Fiandra; c. 61 v - p. 139 Sangiorgi: 12 marzo 1605. Ritornò di Fiandra il capitano Lucantonio Abbati, dove haveva servito con una compagnia di fanteria di qeusto paese per più di tre anni. Nel 1605 la capitolazione prevedeva, per il Duca di Urbino, un'entrata di 18.000 scudi annui: Francesco Maria II, Diario, c. 69 r - p. 155 Sangiorgi: 2 gennaio 1607. Hebbi lettere dalla Maestà del Re, delli 25 di novembre, dove si contentava che, dopo la mia vita, passasse in mio figliuolo tutto ciò che dà a me al presente, che sono 18 milia scudi l'anno, una compagnia di gente d'arme nel Regno di Napoli e la piena prottetione di me e delle cose mie.

[56]Marra, Serra S. Abbondio, p. 176: “Lo scarso slancio con cui i reclutati rispondevano alla chiamata alle armi fu stigmatizzato dallo stesso duca Francesco Mria II che il 18 marzo 1602 rivolse un appello alle popolazioni: Se quelli che hanno l’obbligo, ch’abbiamo noi, di servire il Re Cattolico, per la protezione che da tant’anni in qua ha tenuto e tiene di questo nostro Stato, in quest’occasione che s’è presentata si mostrano tutti a voler servire S. Maestà, tanto maggiormente lo dobbiamo fare noi per li rispetti già detti; tanto più ci fanno sentire amaramente la tepidezza quale sia stata sempre in molti dei nostri sudditi nel ricusare d’andare prontamente con gl’altri al servitio della Mestà in così poco numero; siamo resolutissimi d’usare ogni rigore per castigo dei disobedienti…”.

[57]G.G. SCORZA, Pesaro fine secolo XVI - Clemento VIII e Francesco Maria II della Rovere, Venezia 1980, p. 17. Francesco Maria II, Diario, c. 44 r - p. 94 Sangiorgi: 15 febbraio 1598. Intesi come alli 11, la notte seguente, morì in Ferrara madama Lucretia d'Este, duchessa d'Urbino, mia moglie.

[58]La lettera, più volte pubblicata (ad esempio in R. MARIOTTI, Le seconde nozze di Francesco Maria II duca d'Urbino, in "Le Marche illustrate nella storia, nelle lettere, nelle arti", II (1902), pp. 25-26), è in Scorza, Pesaro, appendice, n. 8, pp. 95-96.

[59]Scorza, Pesaro, p. 42; lettera riportata in Appendice, n. 10, pp. 98-99.

[60]Scorza, Pesaro, pp. 43-45 (che però ritiene tutta la faccenda un errore di Francesco Maria II, non intenzionato assolutamente a sposarsi).

[61]Scorza, Pesaro, p. 50.

[62]Scorza, Pesaro, p. 51 (riportata in Appendice, doc. n. 27, pp. 114-115).

[63]Francesco Maria II, Diario, c. 48 r - p. 104 Sangiorgi: 26 aprile 1599. Sposai la signora Livia Della Rovere. Scorza, Pesaro, p. 52.

[64]R. PACI, Politica ed economia in un comune del Ducato d'Urbino: Gubbio tra '500 e '600, Urbino 1967, pp. 44-45

[65]G. VERNARECCI, Lavinia Feltria della Rovere marchesa del Vasto, Fossombrone 1924, pp. 105-107.

[66]Francesco Maria II, Diario, c. 61 v - p. 140 Sangiorgi: 16 maggio 1605. Piacque a Dio che mi nascesse un figlio a hore 13 1/4, il lunedì, nel giorno di Sant'Ubaldo, protettore della Casa mia: la Duchessa ebbe tre hore e mezzo di doglie, e subbito si liberò; c. 61 v - p. 140 Sangiorgi: 19 maggio 1605. Si battezzò mio figlio, segretamente, da monsignor Cesare Benedetti, vescovo di Pesaro, e li fu posto nome Federigo Ubaldo Giuseppe: fu il dì dell'Ascensa.

[67] Era legge feudale che il sovrano signore del feudo fosse tutore del vassallo minorenne; in questo caso si sarebbe prospettato un governo "provvisorio" del Ducato da parte della Sede Apostolica, che aveva però interesse ad annettere lo Stato.

[68]Ugolini, Storia dei Conti e dei Duchi di Urbino, II, pp. 424-429.

[69]A. POLVERARI, Senigallia nella storia, vol. III, Senigallia 1981, p. 117.

[70]Francesco Maria II, Diario, c. 69 r - p. 155 Sangiorgi: 22 gennaio 1607: Si cominciò il Consiglio dello Stato in Urbino, per la qual città vi fu messer Malatesta Malatesti, messer Piersimone Buonami per Pesaro, il conte Girolamo Cantalmaio per Ugubbio, messer Giacomo Arsilli per Senigaglia, messer Francesco Carnevali per Fossombrone, messer Antonio Brancuti per Cagli, messer Giovan Battista Mazzarini per la provintia del Montefeltro e messer Stefano Minio per la provintia della Massa. Tra Ugubbio e Pesaro e Cagli e Fossombrone bisognò metter la sorte per la differenza di precedenza che passa tra di loro; e segretario fu messer Guido Basilio. Nel settembre 1607 entrò a far parte del consiglio messer Simone Veterano per Urbino (era morto Malatesta Malatesti); nel luglio 1608 il capitano Fulvio Aquilini per Senigallia (deceduto Giacomo Arsilli); nell'ottobre 1609 Giulio Gabrielli per Gubbio (il cui  rappresentante era deceduto) (Francesco Maria II, Diario, c. 70 r - p. 158 Sangiorgi; cc. 72 v e 73 r - p. 163 Sangiorgi; c. 76 r - pp. 169 e 170 Sangiorgi).

[71]Francesco Marisa II, c. 85 r - p. 191 Sangiorgi: 11 settembre 1613. Si soppì il Consiglio degl'Otto.

[72]Francesco Maria II, Diario c. 75 r - p. 167 Sangiorgi: 4 aprile 1609. Si pubbicò il casamento, trattato e concluso, di Federigo con la sorella del Granduca di Toscana, chiamata Claudia, di otto mesi più di lui.

[73]Francesco Maria II, Diario, c. 82 v - p. 184 Sangiorgi: 16 giugno 1612. Si fece il mandato in persona del dottor Lattantio Secoli da Montesecco, in nome di Federigo mio figliuolo, che dopo haver finiti li sette anni rattificò qeullo che si era fatto già nel casamento suo con la principessa Claudia Medici, sorella del Granduca di Toscana.

[74]Paci, Politica ed economia, p. 20.

[75]O. OLIVIERI, Monimenta Feretrana (introduzione, edizione critica e traduzione a cura di Italo Pascucci), Rimini 1981, a p. 367 riporta che, nel 1611, tremila soldati del Ducato andarono a combattere, guidati da Orazio di Carpegna, contro i Savoia. La notizia non è però confermata da altre fonti e anche il preciso diario di Francesco Maria II non la riporta; del resto non era ancora cominciata la I guerra del Monferrato (forse l’autore si confonde con la spedizione del 1595, a cui parteciparono anche il conte di Carpegna e che vide coinvolto, quale alleato della Spagna, il Duca di Savoia).

[76]Francesco Maria II, Diario, c. 89 r - p. 199 Sangiorgi: 19 gennaio 1615. Venne da Roma il Conte di Carpegna per levar un terzo d'infanteria chiestomi dal Governator di Milano; c. 89 v - p. 200 Sangiorgi: 13 aprile 1615. Cominciò a marciare il terzo alla volta di Lombardia per la strada di Toscana; c. 90 v - p. 203 Sangiorgi: 27 dicembre 1615. Ritornò il Conte di Carpegna, etc.

[77]Francesco Maria II, Diario, c. 93 r - p. 209 Sangiorgi: 15 febbraio 1617. La notte seguente arrivò un corriere del signor don Pietro di Toledo, governatore di Milano, che mi dimandò genti per quella guerra; c. 93 r - p. 210 Sangiorgi: 20 aprile 1617. Arrivò il marchese Guerriero, venendo da Milano a far gente in questo paese per servitio di Sua Maestà; partì alli 22 per Loreto; c. 93 v - p. 210 Sangiorgi: 23 aprile 1617. Cominciò a passare la cavalleria napolitana da Sinigaglia, andando a Milano, in numero di mille lance sotto il Principe d'Avellino; e la nostra compagnia d'huomini d'arme passò alli 27.

[78]Francesco Maria II, Diario, c. 95 v - p. 215 Sangiorgi: 6 aprile 1618. Arrivò il capitano Pietrantonio (...) da Refforzato con lettere del Duca d'Ossuna, vicerè di Napoli, dimandandomi (...) fanti per l'armata di maggio

[79]Francesco Maria II, Diario, c. 103 r - p. 234 Sangiorgi: 11 aprile 1622. Il conte Ottavio Mamiano partì per Fiandra.

[80]Francesco Maria II, Diario, c. 101 v - p. 231 Sangiorgi: 29 aprile 1621. Si fecero le nozze del Principe in villa per li scorocci che ci erano; c. 103 r - p. 234 Sangiorgi: 7 febbraio 1622. La Principessa partorì una figlia a 21 hore.

[81]Ugolini, Storia dei Conti e dei Duchi di Urbino, II, p. 438 (decisione notificata al figlio con lettera del 14 maggio 1621).

[82]Ugolini, Storia dei Conti e dei Duchi di Urbino, II, pp. 439-445.

[83]V. LANCIARINI, Il Tiferno Metaurense e la Provincia di Massa Trabaria - Memorie storiche, Roma 1890-1912 (ristampa anastatica, S. Angelo in Vado, 1988), p. 698.

[84]L'Imperatore offriva per la piccola Vittoria l'investitura del Montefeltro in qualità di feudo imperiale (e su tale territorio vantava diritti anche la Toscana) Vds. Ugolini, Storia dei Conti e dei Duchi di Urbino, II, p. 449.

[85]Ugolini, Storia dei Conti e dei Duchi di Urbino, II, pp. 449-460.

[86]Ugolini, Storia dei Conti e dei Duchi di Urbino, II, pp.460-461.

[87]Ugolini, II, 463; Lanciarini, Il Tiferno, p. 725.

[88]C. STRAMIGIOLI CIACCHI, Araldica ecclesiastica: la Legazione di Urbino-Pesaro. Pontefici, governatori, cardinali legati, presidenti, delegati apostolici e vicelegati, in "Frammenti", 5, 2000, pp. 149-239, a pag. 168. Il Gessi, vescovo di Rimini, sarebbe stato poi nominato cardinale nel gennaio 1627.

[89]Lanciarini, Il Tiferno, p. 725.

[90]Stramigioli Ciacchi, Araldica, p. 169.

[91]Lanciarini, Il Tiferno, p. 733.

[92] M. BATTISTELLI, La peste evitata (1629-1632), in “Pesaro città e contà” 7 (1996), pp. 31-44.