Capitolo XXI

 

La Legazione di Urbino e Pesaro

 

 

L’occupazione pontificia dei territori rovereschi, alla morte di Francesco Maria II (28 aprile 1631), avvenne pacificamente e l’ex Ducato mantenne la sua autonomia, all’interno dello Stato della Chiesa, con lo status di “legazione”: rimasero in vigore decreti ducali e statuti cittadini e il governo fu affidato ad un legato (generalmente di grado cardinalizio) che, con propri funzionari e consiglieri, ricopriva tale incarico per alcuni anni. Talvolta il legato, impegnato a Roma o in altre regioni italiane ed europee, delegava i suoi poteri ad un suo rappresentante (vicelegato).

I poteri dei legati, che si avvicendavano però nelle loro funzioni con una certa frequenza, erano molto ampi, sia nel campo temporale, sia in quello spirituale, essi ricevevano onori sovrani (e in ciò era compreso anche l’assistenza della Guardia svizzera: un capitano, un sergente e 24 soldati), una rendita di 3000 scudi annui ed altri vantaggi economici[1].

Il legato governava la provincia insieme all’Uditorio, formato da quattro ministri, da lui stesso nominati, fra esperti del diritto civile e criminale, con i quali formava la Congregazione; ad essa spettava esaminare quotidianamente tutti gli affari politici, economici e giudiziari con la stessa autorità della Sacra Consulta. Due volte la settimana… gli Uditori tenevano al Segnatura di Giustizia, tribunale di appello laico ed ecclesiastico”[2].

Dal legato dipendevano, e da lui erano nominati, i luogotenenti, che nelle città convocavano i consigli cittadini (che diventeranno quasi tutti ereditari)[3].

Il primo legato di Urbino fu il card. Barberini, nipote del pontefice che resse tale carica dall’11 giugno 1631 al febbraio 1633[4]. Ancora molto giovane (era nato nel 1607 ed era stato nominato cardinale a soli vent’anni), fu spesso rappresentato dal suo vicelegato Gaspare Mattei (1631-1633)[5]. Al termine della carica, fu sostituito dal fratello maggiore, cardinal Francesco Barberini, dal 1633 al 1646[6].

 “Veri e grandi avvenimenti politici non turbarono quel lungo periodo di quiete, quasi sonnolenta in cui, dopo la devoluzione del ducato d’Urbino alla Chiesa, i metaurensi vissero per oltre cento sessanta anni”[7].

Il governo ecclesiastico, che non fu esente da limiti, anche piuttosto marcati, sia sul piano militare[8], sia su quello economico-fiscale[9], assicurò comunque alla Legazione un periodo di pace di un secolo e mezzo.

Non particolarmente felice comunque la condizione di gran parte degli abitanti dello Stato: l’Italia  stava attraversando la grande crisi economica del secolo XVII e nella penisola lo Stato della Chiesa era tra le zone meno vitali ed attive[10].

Il netto predominio della città sulla campagna è ‘legalizzato’ dagli statuti cittadini, perpetuato dalla fedeltà alle tradizioni e strenuamente difeso dalla nobiltà e dal clero che, dopo la devoluzione, sono riusciti quasi dovunque ad espungere dai consessi cittadini i rappresentanti degli artigiani e dei commercianti. E clero e nobiltà sono associati nella azione di governo dai comuni interessi di proprietari terrieri e dalla fitta rete di parentele e di amichevoli relazioni che li unisce al cardinal legato ed ai suoi più diretti collaboratori da una parte ed al governo di Roma dall’altra”[11]. La struttura sociale, “quasi  del tutto priva di stimoli capitalistici e signorilmente statica, affonda le radici nelle campagne della Legazione e grava sui mezzadri e sui piccolissimi proprietari del contado, come sui pastori e sui membri delle comunanze della montagna. D’altronde l’incremento demografico, che stipa i mezzadri sulla terra, e l’aumento dei prezzi, che inquieta le plebi cittadini con l’incubo della fame e delle carestie, favoriscono i ceti privilegiati, consentendo l’inasprimento dei contratti di mezzadria, la diminuzione delle mercedi e la vendita a prezzi sempre più remunerativi dei prodotti della terra”[12].

 

Vicende del Seicento, tra cronaca e storia

Nessun evento rilevante viene segnalato durante la “guerra di Castro” (1641-1644) tra il pontefice e una lega comprendente Venezia, duca di Parma, granduca di Toscana, a parte le spese connesse con il passaggio delle milizie e la paura per un’invasione.

Davanti alle coste del Ducato un unico fatto d’armi degno di rilievo: uno scontro avvenuto il 4 settembre 1643 tra una flotta veneta (undici imbarcazioni) e la guarnigione cittadina. Nello scontro morì il comandante veneto Tommaso Canterini[13].

Fu tenuto nel 1656 il primo censimento dello Stato Pontificio, organizzato per scopi fiscali[14]. Il Papa aveva dato ordine in data 25 febbraio 166 ai vescovi di fare il censimento per diocesi alla data di Pasqua 1656, fu curato dai parroci e dall’autorità vescovile: l’elenco delle anime fu raccolto quindi per diocesi e non fu registrato il numero dei bambini sotto i tre anni[15].

La nostra provincia riuscì ad evitare ancora una volta la peste che imperversò in mezza Italia negli anni 1656-1658 grazie ai provvedimenti severissimi adottati dal legato Homodei, che isolò praticamente le città e le terre della legazione, sottoponendo gli eventuali viaggiatori a controlli severissimi e imponendo pene gravissime, compresa quella di morte, a chi avesse trasgredito agli ordini[16]. “Gli individui provenienti da Roma o da altri luoghi infetti venivano inesorabilmente tutti respinti. La minima condiscendenza delle guardie le rendeva possibili di gravi processi con relativa tortura. Monsignor Legato correva da un capo all’altro della Legazione per rendersi conto dell’osservanza dei suoi ordini. Il 28 luglio dell’anno 1656, si verificò in Urbino un caso sospetto che poi non ebbe seguito. Roma fu liberta dal contagio soltanto nell’ottobre 1657, per cui il Legato, con avviso da Mercatello il 31 dello stesso mese, dichiarava riaperto il commercio della Legazione con la Capitale. Finalmente i cordoni vennero tolti il 15 giugno 1658, essendo già il contagio sparito dall’Italia”[17].

Consistente la presenza di pirati in Adriatico: vennero registrati movimenti di navi turche nel 1567; l’anno successivo i pirati catturarono 74 pescatori di Senigallia[18]. Nel 1672 furono assaliti i pescherecci pesaresi e deportati a Dulcigno e Algeri 59 uomini[19]; nello stesso anno i barbareschi sbarcarono alla foce del Cesano, in territorio di Mondolfo, uccisero una persona, ne ferirono altre tre, bruciarono due case e rapirono otto uomini[20].

Altro sbarco turco nel 1687 vicino al Metauro: prima di imbarcarsi senza aver ottenuto risultati i turchi appiccarono il fuoco ai campi di grano[21]. Ancora nel 1715 i pirati catturarono 40 pescatori di Senigallia[22].

Nel 1672 danni rilevanti a causa del sisma che colpì, il 14 aprile, giovedì santo, Rimini (intensità nell’epicentro del IX grado della scala Mercalli): a Fano, a causa del crollo della torre campanaria  in una cappella del Duomo cittadino, morirono ventiquattro persone, tra cui diversi nobili[23]. Notevoli i danni subiti anche a Pesaro (non vi fu campanile, né Chiesa  né abitazione alcuna, così dentro, come di fuori che non si risentisse gravemente, e che hora non minacci chi più, chi meno ruina), Fossombrone, Pergola e Urbino[24]. Danneggiato gravemente anche Castelnuovo, del dominio temporale di Pesaro… diroccato affatto essendovi due sole case rimaste in piedi. Nell’occasione: diroccò tutto il Castello, restandone illesa solamente la Chiesa… quattro donne sono state ricoverate alquanto ferite con lividure e pestature ma senza pericolo di morte. In queste ruine (è) precipitato anche il Palaggio… per il quale caso andranno forse persi alcuni pochi libri della Cancelleria[25].

Nel novembre 1691, a causa di un modesto incidente (sequestro di “covate” di grano da parte del principe Ulderico a sudditi del vicino feudo di S. Sofia, la cui alta sovranità spettava al granduca di Toscana, la contea di Scavolino venne invasa da truppe toscane. Intervenne l’imperatore Leopoldo I e, tramite Ranuccio Farnese, duca di Parma, il Granduca fu convinto a ritirare le truppe e restituire il feudo al principe Ulderico[26].

 

Vicende del Settecento, tra cronaca e storia

Nella notte del 29 maggio 1700 a causa delle piogge torrenziali, durate 40 ore, la placca rocciosa su cui erano fondate le abitazioni di Maiolo, nel Montefeltro, scivolò a valle: il paese fu completamente distrutto e non più ricostruito nel luogo in cui precedentemente esisteva; morirono 26 persone, tra cui il parroco, e altre 24 furono ferite[27].

Fu tenuto  per ordine di Clemente XI, nella Pasqua del 1701, il secondo censimento dello Stato Pontificio. Anche questo fu organizzato per parrocchie e diocesi e anche in questo non furono censiti i bambini sotto i tre anni[28]. Un terzo censimento, sempre organizzato per parrocchie e diocesi, fu  tenuto qualche anno dopo, nel 1708.

Negli anni successivi al 1701 lo Stato della Chiesa fu coinvolto nella guerra di devoluzione spagnola, combattuta anche in Italia tra le truppe austriache e quelle franco-spagnole: la Spagna perse, nella guerra, i suoi possedimenti italiani, passati agli Asburgo d’Austria. Nel 1701 un nerbo di milizie fu inviato a Ferrata, ai confini dello Stato[29]. Esse tuttavia  non impedirono ai belligeranti di attraversare le terre ecclesiastiche: l’esercito tedesco, formato da 12.000 effettivi, entrava, tra la fine di maggio e l’inizio di giugno 1707, nella nostra provincia, dirigendosi a Napoli[30]. Nel 1708, con l’occupazione austriaca di Comacchio (che secondo gli Asburgo era feudo imperiale), il papa entrò direttamente in guerra contro gli imperiali: le truppe ecclesiastiche furono disastrosamente sconfitte e solo nel gennaio 1709 si giunse alla tregua che prevedeva che gli imperiali abbandonassero le terre della Chiesa[31].

Nel 1731 si acuì la tensione tra Toscana e Stato della Chiesa per i feudi di Carpegna e Gattara-Scavolino che, in base a patti sottoscritti alla fine del XV secolo dai conti omonimi, sarebbero dovuti passare alla Toscana in caso di estinzione della linea maschile della dinastia. In quell’anno infatti era morto senza discendenti il principe Ulderico di Scavolino, che aveva nominato suo erede il nipote, il marchese Emilio Orsini de’ Cavalieri[32]. Il testamento, ratificato dall’imperatore, non trovava d’accordo né il Granducato di Toscana, che pretendeva la devoluzione del feudo, né lo Stato della Chiesa, che vantava l’alta sovranità sulla contea e che, per prevenire analoga mossa da parte dei Toscani, occupò Scavolino con un colpo di mano[33]. Con l’intervento imperiale si giunse quindi ad un compromesso: l’Orsini occupava il feudo e rimaneva impregiudicata la questione a chi spettasse l’alta sovranità dello stesso[34].

Fu tenuto nel 1736 il quarto censimento generale dello Stato Pontificio. A differenza dei precedenti questo si fece per province e luoghi[35].

Nel 1736 nuova guerra e nuovi passaggi di truppe: ancora gli imperiali scesero nelle terre della Chiesa[36]. Nel 1742 fu la volta invece degli spagnoli che attraversarono la nostra provincia diretti dal Regno di Napoli alla Lombardia[37], quindi, l’anno successivo, passarono gli imperiali[38]. Le città e i castelli dovevano pensare al vettovagliamento delle truppe, fornire cibo, corazzi, coperte e tutto quello che era necessario al sostentamento di migliaia di uomini; non potevano inoltre impedire atti di saccheggi e prevaricazioni, difficilmente. Per far fronte a queste spese straordinarie, le Comunità si dovevano indebitare e le popolazioni pagare tasse maggiori negli anni successive. Altri passaggi di truppe spagnole avvennero nel 1745[39] e, diverse volte, dal 1755 al 1765[40].

La crisi di Carpegna precipitò nel 1738, pochi anni dopo il compromesso raggiunto tra papa e imperatore: alcuni interventi della S. Sede, che si prestavano all’interpretazione di alta sovranità, spinsero il granduca di Toscana (Francesco di Lorena, marito di Maria Teresa imperatrice d’Austria) ad occupare, il 31 marzo, il principato di Scavolino e la contea di Carpegna (quest’ultimo feudo, per altro, non era vacante dato che era vivente il conte Francesco Maria)[41]. Un nuovo compromesso fu raggiunto nel 1741 quando i toscani abbandonarono i due feudi e la questione fu per il momento congelata: nessuna delle due parti avrebbe avuto, fino alla sua risoluzione, l’alta sovranità sui due luoghi[42]. Nel 1749 morì il conte Francesco Maria di Carpegna, senza figli maschi. Aveva provveduto due anni prima ad istituire quale erede il nipote Antonio Gabrielli, con l’obbligo di assumere stemma e cognome della casata: tale decisione era stata riconosciuta dal papa (che in questo modo di fatto rivendicava l’alta sovranità sulla contea)[43]. La situazione non poteva essere però accettata da Francesco di Lorena che fece invadere il 10 giugno di quell’anno i due piccoli territori confinanti (Carpegna e Scavolino). L’occupazione toscana, osteggiata per via diplomatica dal pontefice, si prolungò fino alla fine di maggio 1754 quando le truppe toscane si ritirarono, senza però che la questione dell’alta sovranità fosse stata risolta[44].

Tra i vassalli del Duca di Urbino (e della Legazione, dopo la devoluzione), un posto a parte era occupato dagli Ubaldini, signori di Apecchio e di altri castelli della zona: essi, in virtù di privilegi ducali, pretendevano di avere piena giurisdizione sui loro territori e di essere esentati dal pagamento delle tasse. Il loro feudo, anche se riconosceva la supremazia ducale (e quindi legatizia) aveva pertanto uno status particolare. Morto Federico II, ultimo conte di Apecchio (16 agosto 1752), si scopre dalla lettura del testamento che costui aveva previsto, non avendo figli maschi, un complicato sistema successorio affinché altri esponenti delle casate degli Ubaldini (altri rami erano diffusi in Toscana e in Italia centrale) subentrasse nei suoi feudi e aveva  messo il suo Stato sotto la protezione dell’Imperatore[45]. Mons. Stoppani, preside della Legazione d’Urbino, quando ancora non era stato reso pubblico il suo testamento, diede ordine di occupare la Contea in nome della S. Sede[46].

 

Le riforme di Benedetto XIV

Nella seconda metà del Cinquecento ci furono timidi segnali di riforme anche nello Stato Pontificio: siamo nei decenni in cui diversi Stati italiani, Ducato di Milano e Granducato di Toscana in primo luogo, intraprendono una vigorosa serie di riforme sociali ed economiche, seguendo le idee che, dalla Francia, si diffondevano nella Penisola. Anche lo Stato della Chiesa cercò di svecchiare la sua struttura e fu papa Benedetto XIV (1740-1758), con motu proprio del 29 giugno 1748 (confermata con la “costituzione perpetua” del successivo 8 luglio) ad introdurre la libertà di commercio interno, per tutti i prodotti e valida in tutto lo Stato[47].

Lo stesso papa, nel 1755, creò una “congregazione particolare”, composta dai cardinali Piccolomini e Rezzonico, dal Tesoriere generale monsignor Perelli e dall’avvocato fiscale, incaricata di esaminare i feudi del Ducato di Urbino e vedere quali tra questi fossero ormai estinti perché concessi dall’erogante (il duca di Urbino) alla terza generazione per linea maschile. Il lavoro della commissione, portato avanti tra difficoltà di ogni genere, dato che i feudatari mal sopportavano che fosse messa in discussione la legittimità della loro posizione, si concluse con un nulla di fatto, dato che il timore di nuove liti fece riconfermare tutte le giurisdizioni e i diritti feudali. Vennero tuttavia aumentati i canoni e ridotti i privilegi contrari alle costituzioni apostoliche (possibilità di dare ricetto ai banditi, imporre dazi o gabelle senza preventiva autorizzazione del legato, vendere  autonomamente  il sale, di cui la Camera Apostolica aveva il monopolio)[48].

 

Disordini negli anni Sessanta

Particolarmente grave la carestia nella nostra provincia (ma interessò tutta Italia) negli anni 1763-1764 e 1766-1767. “Nella Legazione di Urbino la carestia aggrava… la crisi economica già diffusa, spingendo all’inurbamento quei contadini che spesso non hanno ritratto dai campi neppure la semente e aumentando la disoccupazione degli operai e degli artigiani. Essa accentua altresì il divario economico e sociale fra la zona collinare e montuosa – ove i piccoli proprietari e i coltivatori diretti sono degradati a nullatenenti – e le città costiere, ove i grandi proprietari e i capitalisti escono dalla tempesta economicamente rafforzati. Ma, soprattutto, determina quel profondo logoramento dei rapporti fra le classi che apparirà in tutta la sua minacciosa gravità nell’ultimo decennio del secolo”[49].

Fin dall’agosto 1763 il legato, mons. Antonio Colonna Branciforti, annunciava che la raccolta dei grani in questa Legazione è assai scarsa e lo stesso succede nelle province e luoghi circonvicini… Brasatimi e formentoni sono quasi del tutto periti, a segno che appena se n’è ritratta la sementi; chiese pertanto di poter bloccare tutti i permessi di esportazione e di poter procedere ad un ammasso generale dei cereali[50].

Nei mesi successivi si moltiplicarono i disordini e le preoccupazioni delle autorità di governo: nel marzo 1764 vennero assaliti, dagli abitanti di Castelvecchio e Mondolfo, i carri che, da Senigallia, portavano 500 rubbi di grano a Pergola[51]. Da questo momento i convogli di cereali  furono scortati dai soldati e, nell’aprile, uno speciale editto cercò di impedire che i mietitori, che ogni anno si trasferivano dalla nostra provincia nella Campagna Romana, si trasformassero in saccheggiatori[52].

Nell’agosto del 1766, a Senigallia, il sordo malcontento per la riduzione da otto a quattro once del peso del pane venduto a prezzo fisso nel pubblico forno e per il rincaro e la cattiva qualità della farina sfocia in un grave tumulto: i marinai ed il popolo minuto assalgono e saccheggiano i magazzini dei privati, ove il grano è nascosto in attesa di essere imbarcato, e feriscono il comandante di un’imbarcazione tedesca, nell’erronea convinzione che sia carica di grano. Soldati e sbirri, spediti da Pesaro su richiesta della magistratura senigalliese, spadroneggiano per più giorni nella città, terrorizzando gli abitanti e arrestando parecchie decine di pescatori e di popolani, nove dei quali vengono condannati un mese dopo alla galera a vita”[53].

 

Le riforme di Pio VI

Negli anni Settanta esplose in tutta la sua virulenza la “questione fiscale”, ormai aperto terreno di scontro tra le classi sociali. In ogni comunità della Legazione infatti, si era nel tempo stratificata una molteplicità di gabelle e dazi  che colpivano “la proprietà terriera, il bestiame, il trasporto dei prodotti dalla campagna alla città, i generi di largo consumo, la molitura, le abitazioni, le famiglie, gli individui, con molteplici distinzioni fra abitanti del luogo e forestieri, tra cittadini e uomini del contado, fra privilegiati e non privilegiati”. Il sistema era in pieno caos, per altro aggravato dal fatto che la ripartizione era affidata alle amministrazioni locali, controllate da nobili e clero (nella capitale era fissata la prima ripartizione di una nuova tassa fra le province dello Stato; il legato di Urbino divideva la quota assegnata alla Legazione fra le singole comunità che  decidevano autonomamente come reperire il denaro)[54].

Erano del resto numerose le immunità di nobili ed ecclesiastici, il che rendeva ancora più complicata la risoluzione del problema. “Nobili e clero possono … opporre alle gravezze lo scudo delle immunità, oltre ai ricorsi alle vie legali e la semplice insolvenza, ed i proprietari borghesi, i contadini ed il popolo delle città finiscono per essere quasi sempre gli unici contribuenti. Ai contadini il pagamento dei molteplici balzelli (decime, tassa sul bestiame, collara, focatico, macinato, tassa sul sale) costa, negli anni normali, quasi tutto il raccolto di grano e, nelle annate scarse, debiti e sacrifici di ogni genere; essi, inoltre, a causa del sistema generalmente seguito di dare in appalto la riscossione delle gabelle, debbono sottostare ad ogni sorta di prepotenze, che vanno dalle regalie alle percosse”[55].

Il problema della perequazione fiscale era sentito in tutta Italia ed era stato risolto con il catasto (Ducato di Milano, Regno di Sardegna, Regno di Napoli) o con altri provvedimenti (Granducato di Toscana)[56].

Un tentativo riformistico fu intrapreso, qualche anno dopo la morte di Benedetto XIV, da papa Pio VI (1775-1799) che già all’indomani della sua elezione, il Pio VI, il 27 luglio 1776, nominò una congregazione per le riforme in campo economico e finanziario[57].

Un primo campo di intervento riguardò il commercio interno: sviluppando le riforme di Benedetto XIV, vennero aboliti, il 9 aprile 1777, tutti i dazi e i pedaggi riscossi da comunità, feudatari o altre persone ecclesiastiche o laiche senza riguardo ai privilegi e solo prevedendo un sistema di liquidazione per quelli che risultassero concessi a titolo oneroso[58].

Ancor più importante la decisione presa, il 23 luglio 1777, di redigere le istruzione necessarie per la compitazione di un catasto generale dello Stato, con il fine di ottenere una perequazione fiscale e dare impulso ai commerci e al razionale sfruttamento del territorio. Il card. Casali, prefetto della Sacra Congregazione del Buon Governo, invia alle comunità le istruzioni per la  compilazione del suddetto catasto il 15 dicembre 1777[59].

La creazione di un catasto uniforme in tutto lo Stato della Chiesa, creò fortissimi contrasti sociali in tutte le comunità. “Nello Stato pontificio, prima dell’iniziativa di Pio VI, le rilevazioni catastali sono in una indicibile confusione. Vi sono comunità anche importanti, come Terni e Viterbo, ove non esistono catasti, altre ove essi, essendo stati redatti in epoche assai anteriori, non corrispondono in alcun modo alla reale distribuzione della proprietà e allo stato delle culture”[60]. Nella Legazione di Urbino buona parte dei problemi riguarda anche il luogo di accatastamento dato che, in diverse città (Pesaro, Fano, Fossombrone), per patti ormai secolari, i possidenti registravano i propri beni nella città di residenza, non nel luogo ove si trovavano (e in proporzione gli abitanti dei castelli, comunità soggette alle città, pagavano tasse più elevate dei cittadini aventi beni nei castelli stessi)[61].

 “Quando vengono pubblicati l’editto e l’istruzione del cardinale Casali, i piccoli proprietari e gli abitanti del contado vedono ormai vicina  la possibilità di guadagnare decisamente terreno sulla via della totale affrancazione dai vincoli che li tengono soggetti ai consigli cittadini, mentre i nobili ed i grandi possidenti si preparano a difendere le proprie posizioni con un accanimento che l’estensione della contesa a tutto il territorio dello Stato rende ancor più ostinato”[62]. L’istruzione prevedeva infatti che i terreno dovevano essere assegnati, non ostante qualunque privilegio che li cittadini vantassero di avere, nella comunità in cui erano posti, e non nel luogo di residenza del proprietario. Lo scontro fu particolarmente violento a Fano e a Pesaro (dove si evidenziò come alfiere della nobiltà locale il grande erudito locale, il conte Annibale Degli Abbati Olivieri)[63].

Contraddittori pertanto i risultati della riforma voluta da Pio VI prese atto delle esigenze rinnovatrici senza riuscire a soddisfarle e si alienò le simpatie dei conservatori senza guadagnarsi l’appoggio dei più decisi riformatori; la battaglia per il catasto aumentò in definitiva la cesura fra città e campagna, disarticolando ulteriormente la struttura sociale dello Stato[64].

 

Gli ultimi decenni prima dell’arrivo dei Francesi, tra cronaca e storia

Disastroso il terremoto che colpì le zone montane della provincia, con epicentro a ridosso del monte Nerone e intensità del X grado della scala Mercalli, alle ore 11.00 del 3 giugno 1781: Cagli, la città più colpita, ebbe 75 vittime; gravemente colpite anche Urbania, S. Angelo in Vado, Piobbico, Sestino, Belforte, Piandimeleto, Frontino e Mercatale[65]. Lo sciame sismico continuò anche nei giorni successivi: tra il 3 e il 15 giugno si contarono circa 300 scosse[66]. “I danni furono ingenti in tutto l’entroterra urbinate, specialmente nel bacino idrografico del Metauro: un numero incalcolabile di case battute o lesionate, venticinque chiese distrutte e molte altre gravemente danneggiate, mura castellane crollate, strade rese inagibili per frane e spaccature del suolo, ponti crollati”[67].

Nel 1782 fu effettuato il quinto censimento generale dello Stato pontificio, organizzato, come quello del 1736, per province e luoghi[68].

Nominato legato di Urbino il 19 dicembre 1785 (in sede dal 9 giugno 1786) fino al 9 marzo 1794, il giovane cardinale Giuseppe Doria Pamphili (aveva 34 anni quando fu nominato legato), appartenente ad una delle più antiche e prestigiose famiglie romane, cercò di mettere ordine nell’amministrazione della Legazione, in cui si era ormai stratificato un groviglio di decreti ducali (aventi ancora valore), consuetudini locali, costituzioni pontificie, decreti legatizi, spesso in contrasto gli uni con gli altri: esercitò per otto anni il suo compito con scrupolo e imparzialità[69]. Quando il 9 marzo 1794 il Doria lasciava Pesaro, “il rammarico della popolazione doveva essere sincero”[70].

Negli anni del suo incarico, si era sviluppato, con centro in Pesaro, un importante movimento culturale: era sorta in particolare, nel 1792, con sede in Villa Caprile (residenza del marchese Francesco Maria Mosca Barzi), un’accademia dove, influenzati dalle idee francesi, si tenevano discorsi di politica, economia e religione, si elogiavano le riforme fatte nel resto d’Italia, si esprimeva “da taluno l’aperta esigenza di porre riparo alle più stridenti disparità sociali, criticando aspramente il lusso nel quale gli epigoni del mercantilismo vedevano ancora un fenomeno positivo”[71].

La diffusione delle nuove idee è testimoniata anche dai documenti prodotti nel 1790 a Senigallia, centro di un’importante fiera: in quell’anno i borghesi della città chiesero di entrare nel consiglio cittadino, da tempo controllato interamente dalla nobiltà: la lotta assume toni particolarmente accesi.

 

La sollevazione di Fano

Nel 1791 si sollevò Fano (che non faceva parte della Legazione di Urbino ed era sottoposta ad uno schiacciante predominio nobiliare, contro cui poteva ben poco il governatore ecclesiastico inviato dal governo, generalmente un giovane prelato). La ribellione, preceduta da altri tumulti[72], avvenne il 6 settembre 1791, a causa dell’aumento del prezzo della farina e del calo del peso del pane[73].

A capo della rivolta due calzolai (Marcello Giovannini e Cosimo Ratta), un canestraio (Girolamo Vaglia), un sarto (Giovanni Cruculana) e un pescivendolo (tal Baratta), oltre ad una donna, “una certa Moretta povera ma audace”[74]. Il moto cominciò con l’assalto e il saccheggio, organizzato da Moretta e da altre donne fanesi, ad un magazzino di grano, di proprietà di due sensali[75]. Intervennero i due calzolai sopra nominati che, chiamati da Moretta, con un gruppo d’altra gente cominciarono a girare per la città alla ricerca dei due sensali “da tutti creduti grassatori della Città”; già inaspriti da gesti poco opportuni del governatore, monsignor Deodato Bisleti[76], i rivoltosi si impossessarono del Baluardo, che era senza guarnigione, e puntarono i cannoni contro la città[77].

La sera del 7 andò a parlamentare con i ribelli il vescovo della città, mons. Severoli, che, in un movimentato intervento, ottenne la resa dei sollevati in cambio del perdono generale[78]. Patetico il ruolo svolto dal governatore che, bloccato da privilegi di aristocrazia, vescovo e altre istituzioni cittadine, era di fatto condannato all’impotenza[79].

Monsignor Frosini, mandato a sostituire con poteri di visitatore apostolico monsignor Bisleti, scrisse più volte alla Segreteria di Stato che v’è d’uopo di contenere i nobili… Giunto a Fano nel momento di maggior disordine, studiò i rimedi più adatti a far cessare l’ondata di odio e di paura che sembrava sconvolgere tutti: eliminò gli abusi che rendevano gravosissimo il macinato; tentò di regolare il forno dei poveri e progettò un aumento delle tasse sulla possidenza. Egli si devette però immediatamente scontrare con la Curia, che non voleva innovazioni di sorta, sostenendo le ragioni dei nobili. Giunse nelle sue mani anche un memoriale anonimo (le cui riflessioni in parte condivideva) fortemente critico nei confronti del Consiglio cittadino, composto da aristocratici, prepotente, superbo, ignorante più del credibile, tiranno de’ poveri e – senza allontanarsi dal vero –… miscredente ancora[80].

Tra ottobre e novembre il Frosini fece incarcerare divesi sollevati: si cercavano in particolare connessioni tra costoro e monsignor Castracane, ecclesiastico imbevuto di idee illuministe residente a Fano. Alcuni furono poi liberati solo nel gennaio 1794[81].

Il grido di evviva Fano, li fanesi son bravi, facciamo come loro! Era intanto risuonato a Senigallia ed a San Costanzo in alcuni tumulti che vi erano improvvisamente scoppiati (settembre 1791), mentre anche a Pesaro, Torre e Fossombrone il popolo appariva pronto alla ribellione. Il timore di trovarsi di fronte ad una vasta congiura dovuta alla influenza delle massime estere” prendeva, nella mente di mons. Frosini, consistenza[82].

Il grido di”borghesiazioni disorta e che sotieenecomuqnue le ragioni dei nobiliett un pprodi ssio cessare l’



[1]S. CAPONETTO, Pesaro e la legazione d’Urbino nella seconda metà del sec. XVIII, in “Studia Oliveriana” VII (1959), pp. 765-110, alle pagg. 80-81.

[2]Caponetto, Pesaro e la legazione d’Urbino, p. 81.

[3]Caponetto, Pesaro e la legazione d’Urbino, p. 81.

[4]C. STRAMIGIOLI CIACCHI, Araldica ecclesiastica: la Legazione di Urbino-Pesaro. Pontefici, governatori, cardinali legati, presidenti, delegati apostolici e vicelegati, in "Frammenti", 5, 2000, pp. 149-239, a p. 170.

[5]Stramigioli Ciacchi, Araldica, p. 170.

[6]Stramigioli Ciacchi, Araldica, p. 171. Marcolini, Notizie istoriche, riporta, per Francesco Barberini, le date 1633-1643, attribuendo il trienno 1643-1646 al cardinal Giulio Gabrielli.

[7]G. VERNARECCI, Fossombrone dai tempi antichissimi ai nostri, Fossombrone 1914, vol. II, p. 660.

[8]F. CORRIDORE, La popolazione dello Stato Romano, 1656-1901, Roma 1906, p. 10: "Nello Stato non esistevano fortezze d'importanza: erano mal pesidiate quelle di Ancona, di Ferrara, di Civitavecchia, di Castelfranco sul confine dle Bolognese e lo stesso Castel S. Angelo in Roma; quindi il paese si poteva dire tutto aperto e faceile ad essere invaso... Non esisteva esercito permanente. Le milizie si dividevano in pagate e suddite e delle pagate il Papa ne teneva pochissime, appena per presidiare i forti: aggiungi duecento Svizzeri, cento cavalli leggeri e ducento Corsi addetti al servizio di Sua Santità. Tutti compresi potevano ascendere a tremila fanti e cinquecento cavalli. Le milizie suddite erano fromate all'evenienza... Al massimo potevano ascendere a quarantamila uomini; ma... non erano temute perché mancanti di esperienza, di disciplina, di capi".

[9]Corridore, La popolazione, p. 11 ss. Le finanze erano esauste e le entrate erano appena sufficienti per pagare glil interessi dei debiti contratti. Nel 1628, ad esempio, l'entrata era di 2.200.000 scudi, l'uscita di 2.284.000 scudi e rimaneva di debito di 20.000.000 di scudi. Il debito pubblico era salito a 30.000.000 nel 1634, a 39.000.000 nel 1661, a 50 milioni nel 1671.

[10]R. PACI, L’ascesa della borghesia nella Legazione di Urbino dalle riforme alla Restaurazione, Milano 1966, p. 4.

[11]Paci, L’ascesa della borghesia, p. 5.

[12]Paci, L’ascesa della borghesia, p. 6.

[13]A. POLVERARI, Senigallia nella storia, Senigallia 1979-1981, vol. III, pp. 189-190.

[14]Corridore, La popolazione,  p. 13: "Nello Stato della Chiesa si faceva la tassazione delle anime, ciascuna delle quali dovea pagare annualmente bai. 71 e quattrini 3 e mezzo, escluse quelle sotto i tre anni".

[15]P.C. BORGOGELLI, Un censimento del 1656, in “Studia Picena”, III (1927), pp. 73-80;  Corridore, La popolazione, p. 14. Non furono riportate le anime neanche di quei luoghi (pochi) appartenenti a diocesi che avevano sede fuori dello Stato. Il numero delle anime deve poi essere integrato con il numero dei bambini (Corridore, p. 14, propone di aggiungere il 7,4%, percentuale registrata nel censimento del 1881).

[16]Lanciarini, Tiferno, p. 750.

[17]Lanciarini, Tiferno, p. 751.

[18]S. ANSELMI, Economia e vita sociale in una regione italiana tra Sette e Ottocento, Urbino 1971, pp. 212-214.

[19]A. DELI (a cura di) Fano nel Seicento, Urbino 1989, p. 296.

[20]Deli, Fano nel Seicento, p. 297.

[21]Deli, Fano nel Seicento, p. 297.

[22]Anselmi, Economia e vita sociale, p. 215.

[23]A. MURRI e V. CASTELLI, I terremoti nelle Marche nel Seicento, in C. Costanzi e M. Massa (a cura di), “Il Seicento nelle Marche”, Ancona 1994, pp. 139-156, a pag. 151; Deli, Fano nel Seicento, p. 299.

[24]Murri-Castelli, I terremoti nelle Marche nel Seicento, pp. 151-152.

[25]Murri-Castelli, I terremoti nelle Marche nel Seicento, p. 151.

[26]F.V. LOMBARDI, La contea di Carpegna, Urbania 1977, p. 109.

[27]F.V. Lombardi, La tragica frana di Maiolo dell'anno 1700, in AAVV, "Le frane nella storia della Valmarecchia", Rimini 1993, pp. 39-58, alle pagg. 42-44.

[28]Corridore, La popolazione, pp. 15-19.

[29]Vernarecci, Fossombrone, II, p. 678.

[30]Vernarecci, Fossombrone, II, p. 678.

[31]Vernarecci, Fossombrone, II, pp. 678-679.

[32] M. BATTISTELLI, Miratoio. Una comunità di confine tra Montefeltro e Massa Trabaria, Rimini 1992, p. 42.

[33]Lombardi, Carpegna, p. 110.

[34]Lombardi, Carpegna, p. 110.

[35]Corridore, La popolazione, p. 22.

[36]Vernarecci, Fossombrone, II, p. 685.

[37]L. NICOLETTI, Di Pergola e suoi dintorni, Pergola 1899, p. 238; Vernarecci, Fossombrone, II, pp. 686-688.

[38]Vernarecci, Fossombrone, II, p. 690.

[39]Vernarecci, Fossombrone, II, pp. 689-691.

[40]Nicoletti, Pergola, p. 249.

[41]Lombardi, Carpegna, p. 110; Battistelli, Miratoio, p. 54.

[42]Lombardi, Carpegna, pp. 110-112.

[43]Lombardi, Carpegna, p. 133.

[44]Lombardi, Carpegna, pp. 112-114.

[45]C. BERLIOCCHI, Apecchio tra Conti Duchi e Prelati, s.l. (Petruzzi Editore), 1992, pp.308-310.

[46]Berliocchi, Apecchio, pp. 313-318. “Lo Stato della Chiesa aveva tali e tente ragioni, come si diceva allora, per l’annessione di Apecchio, che neppure l’imperatore Francesco III osò superare i limiti di una rituale protesta, fatta per acontentare i suoi sostenitori italiani”.

[47]Paci, L’ascesa della borghesia, p. 8. “Data la difficoltà e la lentezza dei trasporti e la molteplicità di dazi e pedaggi, di questa libertà di commercio, in pratica, usufruiscono soltanto i proprietari di grosse partite o gli incettatori che raccolgono il grano dai paesi dell’interno per convogliarlo a Fano e a Senigallia. Qui il grano viene imbarcato per Roma o per la Romagna, dopo un ulteriore passaggio nel porto franco di Ancona, nel quale si concentra tutto i commercio dei cereali delle Marche e della Romagna”.

[48]Paci, L’ascesa della borghesia, p. 22.

[49]Paci, L’ascesa della borghesia, p. 15.

[50]Paci, L’ascesa della borghesia, pp. 12-13.

[51]Paci, L’ascesa della borghesia, p. 13.

[52]Paci, L’ascesa della borghesia, p. 14.

[53]Paci, L’ascesa della borghesia, p. 14.

[54]Paci, L’ascesa della borghesia, p. 24.

[55]Paci, L’ascesa della borghesia, pp. 26-27.

[56]Paci, L’ascesa della borghesia, pp. 34-35.

[57]Paci, L’ascesa della borghesia, p. 33.

[58]Paci, L’ascesa della borghesia, p. 33.

[59]Paci, L’ascesa della borghesia, pp. 33-34.

[60]Paci, L’ascesa della borghesia, pp. 36-37.

[61]Paci, L’ascesa della borghesia¸ p. 38. “I cittadini possono spesso addurre a faore della propria tesi convenzioni e patti stipulati in età più o meno remote, mentre le comunità dle contado rivendicano non solo alcuni precedenti giuridici, ma anche il fatto che, essendo enormemente cresciute le proprietà dei cittadini nei castelli, esse sono ormai impotenti, per la continua riduzionedei tassabili, a far fronte lale spese ordinarie, pur avendo aumentato il caricofiscale oltre i limit del sopportabile”.

[62]Paci, L’ascesa della borghesia, p. 39.

[63]Paci, L’ascesa della borghesia, pp. 41 ss. Sulle lotte pro o contro il catasto vds. anche Caponetto, Pesaro e la Legazione d’Urbino, pp. 99-110.

[64]Paci, L’ascesa della borghesia, p. 70.

[65]A. ASCANI, Apecchio contea degli Ubaldini, Città di Castello, 1977, pp. 181-182; Nicoletti, Pergola, p. 251.

[66]T. ZEDDE, Un tentativo di ricerca attraverso l’annlistica locale: Ancona, Recanati ,Fano, in “Proposte e Ricerche”, 13, 1984, p. 81.

[67] C. LEONARDI, Movimenti tellurici nella Massa Trabaria, , “Proposte e Ricerche”, 13, 1984, pp. 84-85.

[68]F. CORRIDORE, La popolazione dello Stato Romano, 1656-1901, Roma 1906, pp. 246-249.

[69]Caponetto, Pesaro e la legazione d’Urbino, pp. 76-83. Visitò nel 1788 tutte le comunità della Legazione, ad oltre quarant’anni di distanza dalla precedente visita.

[70]Caponetto, Pesaro e la legazione d’Urbino, p. 83.

[71]Paci, L’ascesa della borghesia, pp. 51-52.

[72]Paci, L’ascesa della borghesia, pp. 52-55: “Già da alcuni anni  la plebe fanese “aveva fatto saggio, a dir così, delle proprie forze” e più volte erano scoppiati tumulti: nel 1788 si ebbe una sollevazione del popolo contro i nobili perché il gonfaloniere avava fissato il prezzo di 80 libbre di farina a paoli 14-15; il popolo si sollevò ancora il 17 agosto 1790 ottenendo che il prezzo della farina fosse fissato a scudi 6 il rubbio per tutto l’anno; il 17 agosto 1791 nuova rivolta per l’aumento dei prezzi della farina di tre paoli al rubbio”.

[73]Essenziale la testimonianza del coevo Tommaso MASSARINI, Cronaca fanestre o siano memorie delle cose più notabili occorse in questi tempi nella città di Fano, a cura di Giuseppina Boiani Tombari, in "Nuovi Studi Fanesi", quaderno n. 6, Fano, 2001, p. 11. Vds. anche S. PETRUCCI, Insorgenti marchigiani - Il trattato di Tolentino e i moti antifrancesi del 1797, Macerata 1996, p. 94 e Paci, L’ascesa della borghesia, p. 54 ss.

[74]Paci, L’ascesa della borghesia, p. 55.

[75]Massarini, Cronaca fanestre, pp. 11-12.

[76]Massarini, Cronaca fanestre, p. 12: ... sicome ciò era accaduto per sua cociutaggine o sia per imperizia di Governatore, cioè per non averli fatto giustizia, perché Fano è solito regolarsi nel vendere il grano e pane col calmiere di Senigaglia, Fossombrone e Pesaro ed essendo in queste Città il grano e pane più a buon prezo di costì..., portarono al detto Monsignor Bisleti costoro i Campioni di tute le qusalità di pane di queste tre piazze e questo, invece di dare ascolto ai ricorenti, mandò tuto quel pane in ellemosina ai Carcerati e scaciolli bruscamente da sè e seguitò a dare ordini per l'imbarco delle granaglie e perciò inasprì talmente i ricorenti ed il popolo  che comisero il sudetto attentato a quel magazeno posto sotto li Archi del Corpus domini, che era imminente per essere quel Grano imbarcato... Vds. anche N. FERRI, La Comune Repubblicana di Fano, in Fano 5, 1972, pp. 69-118, alle pagg. 75-76.

[77]Massarini, Cronaca fanestre, p. 12; Ferri, La Comune, p. 77.

[78]Massarini, Cronaca fanestre, p. 13; Ferri, La Comune, pp. 80-81.

[79]Lettera di mons. Frosini alla Segreteria di Stato, del 6 ottobre 1791 (riportata da Paci, L’ascesa della borghesia, appendice 1, pp. 61-62: Per contenere fin dai primi passi l’insurgenza le forze esecutive e le politiche, cioè le diverse autorità, non erano certamente combinate. Quella del Governo già da gran tempo è poca, adesso poi era diventata nulla. Il Governatore, oltre d’essere inceppato dai privilegi dei nobili, oltre il dover combattere con nobiltà intestata per chimera di comandare, ma realmente in comando per tutto quello che è amministrazione communitativa, era ancora circondato al presente sempre più dai molti diritti che il tribunale di monsignor tesoriere dà ai suoi dipendenti qual è l’Assessor Camerale, il Prelato in calze nere, il Castellano, i soldati delle Finanze, etc., tutti individui indipendenti da lui.

[80]Il memoriale è allegato alla missiva di mons. Frosini alla Segreteria di Stato, 20 ottobre 1791 (in Paci, L’ascesa della borghesia, p. 63-65, a pag. 63).

[81]Massarini, Cronaca fanestre, pp. 14-17; Ferri, La Comune, p. 81 ss. Per un giudizio sul moto, in prospettiva storica e in riferimento agli avvenimenti successivi, vds. le conclusioni di Petrucci, Insorgenti marchigiani, p. 95: "Va stabilita una continuità tra queste manifestazioni e l'Insorgenza antifrancese? E' necessario rispondere con cautela dal momento che... località come Fano... non conobbe episodi di Insorgenza... Se una continuità va ricercata... è tra coloro che nel 1791 venivano indicati dalla popolazione in rivolta come colpevoli della drammatica situazione economica e coloro che in seguito aderirono all'invasore francese".

[82]Paci, L’ascesa della borghesia, p. 58.