Capitolo XXII

 

L’invasione francese

 

L’invasione dello Stato Pontificio (giugno 1796)

Il 16 giugno 1796 le truppe francesi, che avevano oltrepassato le Alpi all’inizio di aprile di quell’anno per combattere gli Austriaci e gli Stati italiani a questi alleati, attraversavano le frontiere dello Stato Pontificio e occupavano senza incontrare resistenza, Bologna (20 giugno) e Ferrara (24 giugno)[1]. L’armistizio tra Napoleone, comandante dell’esercito invasore, e i rappresentanti della S. Sede fu firmato il 23 giugno: i francesi mantenevano il controllo delle legazioni di Bologna e Ferrara, avevano libero passaggio in tutto lo Stato della Chiesa, potevano istallare una guarnigione in Ancona; il pontefice doveva consegnare alla Repubblica cento opere d’arte e ventun milioni di lire (di cui quindici in oro o argento)[2]. La cifra, enorme per quei tempi, fu raggiunta, nei mesi successivi, utilizzando l’oro e argento in mano agli enti ecclesiastici (compresi oggetti di culto di chiese e conventi) e aumentando le tasse: provvedimenti che suscitarono un forte malcontento tra la popolazione[3].

Ci si preparava intanto a difendere il territorio dello Stato da una prevedibile ulteriore invasione francese, ma i provvedimenti erano del tutto inadeguati. “Il conte Marco Fantuzzi, nominato nel settembre 1796 commissario generale delle truppe della Romagna, fece capire alla Segreteria di Stato l’impossibilità di una difesa con delle milizie raccogliticce, che erano l’emblema dell’anarchia e della miseria. Nella Legazione urbinate gli unici punti per una resistenza erano le fortezze di Pesaro, Senigallia e S. Leo. Le prime due nel febbraio del ’93 avevano 12 soldati di presidio e una compagnia del soccorso sulla quale non c’era da contare. Nell’arsenale di Pesaro v’erano 9 cannoni, 300 fucili, 2500 libbre di polvere. In provincia si potevano chiamare 4695 uomini, ma si poteva far conto sulla metà circa”[4].

 

La seconda invasione francese (febbraio 1797)

Nei mesi successivi i rappresentanti francesi ed ecclesiastici, per diversi motivi, non riuscirono a firmare un trattato di pace definitivo[5] e la situazione divenne sempre più tesa. La situazione precipitò alla fine di gennaio 1797: il 31 del mese Bonaparte annunciava l’invasione e, il giorno successivo, dichiarava rotto l’armistizio[6].

Il 2 febbraio i francesi  (10.000 uomini circa) spezzavano la resistenza dei pontifici (circa 4.000 uomini) lungo il fiume Senio (presso Faenza)[7] e marciavano verso sud senza incontrare resistenza: dovunque creavano municipalità provvisorie a loro favorevoli, innalzavano gli “alberi della libertà” (simboli del nuovo regime), distruggevano stemmi ed insegne nobiliari. Essi erano  ben accolti da una parte della popolazione (i loro partigiani erano prevalentemente borghesi, ma anche alcuni ecclesiastici ed aristocratici), presso la quale si erano già da tempo diffuse le idee di libertà, ugugalgianza e fraternità e che pensava di abolire grazie alle armi straniere le storture e gli anacronismi della società di antico regime. Il 5 febbraio gli invasori, guidati dal gen. Victor Perin, entravano a Pesaro, abbandonata dal presidente della Legazione, mons. Ferdinando Saluzzo[8]. Il 6 febbraio entrava in città il Bonaparte che, il giorno successivo (7 febbraio), creò sia la nuova municipalità pesarese[9], sia una amministrazione provinciale provvisoria (chiamata “Amministrazione centrale”)[10].

Nel frattempo terminavano le operazioni militari nella provincia: nella notte tra il 5 e il 6 fu occupato il forte di S. Leo[11]; il 6 i francesi entravano senza contrasto a Fano[12]; il 7 a Senigallia (e l’8 febbraio erano ad Ancona)[13]. L’11 febbraio si ritirarono verso Roma le truppe papaline che erano rimaste a presidiare il passo del Furlo[14].

 

Il trattato di Tolentino

Papa Pio VI fu a questo punto costretto a chiedere al generale Bonaparte la pace. Il trattato fu firmato a Tolentino il 19 febbraio 1797: lo Stato Pontificio si impegnava a cedere alla Francia, oltre alla città di Avignone, le legazioni di Bologna, Ferrara e Ravenna; permetteva l’occupazione di Ancona fino alla “pace continentale”; doveva completare i versamenti previsti dall’armistizio di Bologna (restavano 15 milioni di lire tornesi da pagare), versare altre 15 milioni di lire tornesi, completare la consegna delle opere d’arte. I Francesi si impegnavano ad evacuare l’Umbria e Camerino una volta pagati i primi 15 milioni; Macerata e Fano dopo altri 5 milioni; Urbino dopo il versamento di ulteriori 5 milioni[15].

Dato che il trattato rimase per qualche giorno segreto, i Francesi cominciarono a saccheggiare le province che avrebbero dovuto riconsegnare, di lì a poco, al papa[16].

 

La sollevazione antifrancese

Nel frattempo la situazione era precipitata e la parte montana della nostra provincia si era sollevata. Ci fu infatti una generale rivolta di fronte alle violenze e ai soprusi, alle requisizioni di oggetti sacri e ai saccheggi e ai furti degli invasori. La sollevazione, popolare, spontanea e non sostenuta dagli alti vertici della Chiesa locale[17], interessò tutta la zona collinare e montana delle Marche[18].

Il primo atto di ostilità nei confronti degli occupanti fu registrato il 15 febbraio 1797 ad Auditore: un certo Franco Ceccaroli rifiutò di consegnare le armi e incitò il popolo alla ribellione. Furono inviati il giorno successivo una dozzina di soldati per arrestarlo che però furono assaliti dagli abitanti della zona: il prigioniero fu liberato, un militare rimase ucciso e diversi feriti[19].

La sollevazione vera e propria iniziò ad Urbania e, nell’arco di due giorni, infiammò tutta la zona montana della provincia. All’alba del 23 febbraio furono uccisi in località Le Lame, a due miglia di Urbania, dagli insorgenti di Massa Trabaria e Peglio il commissario francese Gerard, il cancelliere Giacomo Giuliani e un certo Giambattista Luzi, che li accompagnava; i primi due si erano recati il giorno precedente ad Urbania per requisire oggetti sacri e stavano dirigendosi a S. Angelo in Vado per procedere alle confische anche in quella terra. Subito gli insorgenti entrarono ad Urbania, disarmarono la guardia civica ed incitarono il popolo alla rivolta[20].

Le notizie provenienti da Urbania spinsero alla ribellione altre località della Legazione. Nella notte tra 23 e 24 si sollevarono gli Urbinati, esasperati per le requisizioni di oggetti sacri effettuate dai francesi nei giorni precedenti. Il giorno 24 il vescovo cercò di calmare gli animi ma, non essendo riuscito a riportare la calma, fuggì a Pesaro[21]. Anche tutti gli altri centri dell’entroterra, fino a Fossombrone, si ribellarono il 24 febbraio: solo la costa rimaneva nelle mani delle truppe transalpine[22].

 

I francesi sconfitti ad Urbino

Subito il generale Dorel inviò il 25 febbraio da Pesaro ad Urbino circa quattrocento fanti e trenta dragoni per reprimere la rivolta: la colonna si scontrò con gli insorti presso Gallo e dovette tornare indietro, lasciando sul terreno numerosi morti[23]. Una parte di essa, composta da circa centosessanta soldati, si era però precedentemente staccata dal grosso delle truppe ed era riuscita a giungere a circa tre miglia da Urbino, dove passò la notte. Il giorno successivo cadde però in un’imboscata e solo venticinque dragoni con pochissimi fanti riuscirono a sganciarsi e a ritornare a Pesaro[24]. Nei due scontri i francesi aveva perso circa centocinquanta uomini; erano invece state irrisorie le perdite degli insorgenti[25].

L’onore delle armi francesi esigeva che si vendicassero i caduti, si punissero gli insorti e si ristabilisse l’ordine[26]. La spedizione, guidata dal generale Sahuguet, fu organizzata in due colonne che, partite da Pesaro all’alba del 27 febbraio, dovevano, dopo aver percorso strade diverse, stringere Urbino da opposte direzioni: la prima colonna, composta da mille fanti e alcuni cavalieri, avrebbe percorso la via più breve (da S. Tommaso a Urbino attraverso Colbordolo e Montefabbri); la seconda (guidata dallo stesso Sahuguet), formata da duemila fanti e trecento cavalieri, con carri, provvigioni, alcuni pezzi di artiglieria e mortai, avrebbe raggiunto Urbino passando per Fano e Fossombrone[27]

La prima colonna si scontrò più volte con gli insorti e, nello stesso 27 febbraio, prese il castello di Colbordolo, che fu dato alle fiamme. Nella mattina del giorno successivo si presentò sotto le mura della città di Urbino, presso Porta S. Lucia: trovò le porte chiuse e fu presa a cannonate dall’unico pezzo in possesso degli Urbinati (ma questo i francesi non lo sapevano e pensarono che gli insorti fossero  provvisti di artiglieria). Si ritirò quindi, sempre scontrandosi con i sollevati, nella chiesa di S. Stefano di Pallino. Il primo marzo la colonna era a Montefabbri, castello semidiroccato, che fu subito assalito da seicento ribelli, guidati da Agostino Staccoli, “generale in capo” delle milizie urbinati: i francesi, decimati dalle perdite subite nei vari scontri (il loro numero era nel frattempo sceso a 116 unità), si arresero e furono condotti prigionieri ad Urbino[28].

La seconda colonna riuscì facilmente ad entrare a Fossombrone, che fu orrendamente saccheggiata[29]. Il 1 marzo quindi mosse alla volta di Urbino, dove giunse verso sera[30]. Il 2 marzo la città fu bombardata e i francesi aspettarono la resa dei nemici ma il cannoneggiamento non aveva provocato gravi danni e gli animi erano imbaldanziti dai successi dei giorni precedenti: le intimazioni di resa furono sdegnosamente respinte. I francesi pertanto il 3 marzo, alla notizia dell’avvicinarsi di colonne di ribelli, esaurite le munizioni, nell’impossibilità di espugnare la città, decisero di ritirarsi: nella precipitosa fuga verso Fossombrone cadde nelle mani degli insorti buona parte del bottino razziato. Tra morti e prigionieri la colonna perse un centinaio di uomini; lievissime invece le perdite degli Urbinati[31].

Nel frattempo era giunta notizia delle condizioni del trattato di Tolentino, che prevedeva il ritorno della nostra Legazione alle dipendenze della Santa Sede[32]: protrarre i combattimenti non conveniva a nessuna delle due parti. Il 6 marzo fu pertanto spedita dai capi del comune di Urbino al generale Sahuguet una lettera in cui venivano incolpati gli abitanti del contado dei disordini e veniva richiesto il perdono per le agitazioni. L’11 marzo fu pertanto concluso un accordo di pace tra Francesi e insorti sulla base dell’indulto generale, del disarmo e della restituzione dei prigionieri[33].

A pacificare gli animi provvedeva intanto anche mons. Arrigoni, inviato dal papa nella nostra Legazione a pacificare e disarmare i sollevati e ristabilire l’autorità delle leggi. Costui, giunto ad Urbino il 13 marzo, fece riaprire subito con una sua ordinanza il passo del Furlo, occupato e sbarrato dagli insorti[34].

 

Gli insorti nella valle del Cesano e in altri luoghi della provincia

Francesi e popolazione locale erano venuti alle mani anche nella vallata del Cesano, specialmente a S. Lorenzo, dove gli insorti erano guidati dal ventenne Giovambattista Duranti[35]. Il 25 febbraio infatti in questa località vennero arrestati due ufficiali cisalpini (tali capitano Merlini e tenente Lanzi) e un cavaliere francese (cavaliere d’Ambrois) che i ribelli pensavano fossero giunti in paese a requisire le armi della popolazione. Subito la ribellione si estese ad altri centri vicini (S. Vito, Montalfoglio, S. Andrea, Montesecco e Castelleone) e si cercò di coinvolgere nella ribellione Pergola, che però rimase estranea al moto, anche se gli insorgenti vi fecero un’apparizione il 4 marzo (mentre trapelava la notizia della pace di Tolentino), e Mondavio, occupata il giorno 1 marzo, tra la costernazione degli abitanti (e del vescovo fanese mons. Severoli, che cercava disperatamente di placare gli animi)[36].

Anche in questo caso i Francesi si mossero per vendicare l’offesa subita: il 6 marzo, partiti da Senigallia, cannoneggiarono (con scarsi risultati) S. Lorenzo per un’ora e tre quarti. Quella stessa sera però, sorpresi da una pioggia dirotta e decimati dal fuoco dei ribelli, ben asserragliati nel paese, dovettero ritirarsi lasciando sul campo diversi morti, tra cui il loro colonnello e alcuni ufficiali[37]. Anche in questo caso si giunse ad un compromesso: il 10 marzo quattro deputati di S. Lorenzo si recavano a Senigallia per sottoscrivere la dichiarazione di sottomissione; i francesi da parte loro, come stava avvenendo ad Urbino, rinunciavano a vendicare i caduti della spedizione[38].

Il Montefeltro era in armi già all’inizio di febbraio, nonostante le esortazioni delle autorità religiose che consigliavano prudenza. Il 5 marzo fu conquistata dagli insorgenti, con un colpo di mano e senza spargere sangue, la fortezza di S. Leo; il 6 era in loro potere la città[39].

Il 31 marzo però Tavoleto, uno dei primi centri insorti contro gli invasori, fu messa a sacco dai francesi durante un’operazione mirante a difendere le loro posizioni  sul Riminese: furono uccisi 23 uomini, tra cui alcuni vecchi, un sacerdote cieco e inabile, un chierico; furono incendiate tutte le case e le due chiese parrocchiali del castello[40].

A parte questo episodio, fino all’abbandono del territorio della Legazione, le truppe transalpine si concentrarono nelle città costiere e le zone dell’interno rimase solo formalmente sottomessa alla loro autorità.

 

La restaurazione pontificia.

Il 6 aprile finalmente tutto il territorio della Legazione era nelle mani di mons. Arrigoni che, poco dopo, cedette il posto a mons. Ferdinando Saluzzo[41].

Partiti i Francesi..., la provincia tornò sotto l’amministrazione papale, alla quale per la verità riusciva più di prima difficile dominare il malcontento e reprimere le spinte rivoluzionarie che l’occupazione francese aveva, in forme confuse e contraddittorie, scatenato e che, riaccesosi durante l’estate un po’ dappertutto, …si volsero ora contro le autorità restaurate”[42]. I partigiani dei Francesi infatti rimpiangevano che non si fosse realizzato il sogno repubblicano che essi avevano in diversi luoghi della provincia sostenuto; i rappresentanti del governo pontificio non potevano dimenticare che il popolo insorto aveva con le armi combattuto contro l’autorità; i sollevati erano irritati perché, nonostante la felice affermazione militare, il governo pontificio, che non aveva saputo difendersi, pretendeva, privo di prestigio, di affermare nel consueto sonnolento modo, la sua autorità; i nobili infine, dopo un dominio di secoli, aveva dovuto subire, durante i giorni dell’occupazione, varie e gravi umiliazioni  ed erano insoddisfatti di tutti e di tutto[43].

Se a ciò aggiungiamo che Pio VI, per racimolare l’enorme quantità di oro e argento che doveva essere versata, secondo i termini del trattato di Tolentino, ai Francesi, dovette richiedere onerose contribuzioni a luoghi sacri e comunità, si può ben capire che la situazione fosse, per le autorità ecclesiastiche, non troppo felice[44].

Il governo pontificio, ripristinato in condizioni di estrema precarietà e insicurezza, si preoccupa infatti più che di ogni altra cosa di ridurre all’obbedienza gli insorti contadini della montagna… Si doveva anche fare i conti con la nuova mentalità sviluppatasi, al fuoco della rivoluzione, nei “ceti d’ordine”, che, alleatisi con i moderati filo-francesi, chiedono riforme, come l’abolizione dei privilegi ecclesiastici, l’autonomia amministrativa e i consigli popolari, che significherebbero, se accolte, la rinuncia al carattere ecclesiastico dello Stato e la sua evoluzione in senso borghese”; era inoltre impossibile frenare l’ascesa dei prezzi[45].

E alle proteste per la mancanza di generi alimentari si aggiungevano pericolosi scricchiolii in campo politico: “già nel marzo del ’97, quando le truppe francesi non hanno ancora sgomberato Pesaro, parve imminente ad Urbino uno scoppio rivoluzionario germinante dal torbido terreno del brigantaggio contadino e diretto, contro la nobiltà e i ricchi; a Pesaro artigiani, piccoli borghese e persino esponenti del basso clero svolgono attiva opera di propaganda contro il potere temporale e la religione cattolica e cercano proseliti fra gli operai ed i contadini, prospettando profonde riforme sociali”[46].

 

L’invasione dei Cisalpini (dicembre 1797).

I rapporti tra Stato della Chiesa e Francesi erano rimasti tesi, ma la vera e propria rottura si ebbe con la confinante Repubblica Cisalpina, creata da Napoleone nel giugno 1797 (che includeva, dal 9 luglio di quell’anno, anche i territori della Cispadana, cioè le ex legazioni pontificie di Romagna) e non riconosciuta dalla Santa Sede. Nel corso del 1797 si ripeterono le provocazioni e le aggressioni dei Cisalpini e si evidenziò il comportamento irresoluto, la debolezza, la mancanza di orgoglio delle autorità pontificie.

Già nel mese di giugno si diffondevano voci di un possibile attacco cispadano al Montefeltro[47]; nell’agosto 1797 un gruppo di irregolari cisalpini sconfinò nel Montefeltro: furono respinti dalle truppe pontificie e dagli abitanti della regione[48].

Nel novembre Ancona, presidiata in base agli accordi di pace da 5000 soldati francesi (che, sempre in base al trattato di pace, avrebbero dovuto evacuare la città alla firma della pace continentale, cioè nel precedente mese di ottobre)[49], proclamò la propria indipendenza dalla Chiesa dandosi un governo repubblicano: i pontifici si ritirarono dalla città e protestarono per l’infrazione del trattato[50].

Il 1 dicembre 1797 giunse al generale cisalpino Dabrowski l’ordine di muoversi nel Montefeltro ed occupare con le sue truppe la rocca di S. Leo, di pertinenza, secondo i Cisalpini, della Romagna. Subito ordinò al comandante della rocca la resa e, avendo questo rifiutato, intimò a mons. Ferdinando Saluzzo, presidente della Provincia, di consegnargliela entro tre giorni, altrimenti avrebbe occupato tutto il Montefeltro. Il Saluzzo, lasciato senza ordini da Roma, si piegò al diktat e ordinò la resa della fortezza (7 dicembre 1797)[51].

A questo punto si mossero i filofrancesi di Pesaro che sollevarono la città nella notte tra 21 e 22 dicembre: monsignor Saluzzo fu posto agli arresti nella sua residenza mentre (22 dicembre) entravano in città i Cisalpini[52]. Il 23 insorgeva anche Senigallia e, nello stesso giorno, “patrioti” pesarese e fanesi occupavano anche Fano[53], ben presto raggiunte dai Cisalpini, che si diressero quindi verso l’entroterra: il 26 dicembre il generale Lechi con due colonne di soldati era in Urbino, subito abbandonata, senza combattere, dai pontifici[54]; il 26 veniva proclamata la repubblica a Pergola[55]; Urbania fu occupata il 31[56]. Nei primi giorni di gennaio si prese quindi possesso, senza incontrare resistenza, del restante territorio della Legazione, e le varie comunità giurarono obbedienza e fedeltà alla Cisalpina[57].

Da notare che l’invasione era stata effettuata formalmente dai Cisalpini. Ma il 28 dicembre 1797 fu ucciso a Roma il generale Duphot e la Francia entrò in guerra contro lo Stato della Chiesa[58].

 

Il congresso di Fano

Nacque presto, o fu indotta dagli invasori, l’idea di indire un congresso a Fano di tutti i deputati della ex Legazione per creare un regolare governo della Provincia. Il 25 gennaio 1798 pertanto ebbe luogo a Fano l’adunanza d’inaugurazione di tale congresso, che fu anche l’unica effettuata: erano presenti i rappresentanti di Urbino, Pesaro, Senigallia, Cagli, Urbania, Fossombrone, Pergola, S. Angelo in Vado e Città di Castello (quest’ultimo era l’unico centro, a parte Fano, esterno alla vecchia Legazione di Urbino; Gubbio pur avendo aderito non aveva inviato delegati). Si scontrarono, per la sede del governo provvisorio, i rappresentanti fanesi (che caldeggiavano la loro città) e quelli urbinati, che ad un certo punto abbandonarono l’adunanza, che si concluse così con un nulla di fatto[59].

 

La Repubblica Romana

Fallito il tentativo di costituire un governo autonomo, dietro sollecitazione del generale francese Berthier, che guidava l’offensiva contro lo Stato della Chiesa, le varie comunità della ex Legazione furono incorporate (gennaio-marzo 1798) o alla Cisalpina (Pesaro e Montefeltro), o al Governo Centrale dei Paesi Uniti (meglio conosciuto come “Repubblica Anconetana”): aderirono a quest’ultima entità quasi tutte le comunità dell’ex legazione, da Fano e Senigallia a Gubbio e Città di Castello. Quindi, occupata Roma (10 febbraio), il generale Berthier decretò (15 febbraio) l’annesione della Repubblica Anconetana, come “dipartimento del Metauro”, al nuovo Stato[60].

Rimase indefinito il confine tra Cisalpina e Romana, cosicché alcuni paesi erano considerati, dalle due Repubbliche, facenti parti del proprio territorio. Il 2 germile anno VI (22 marzo  1798) fu promulgata la legge che divedeva la Repubblica Romana in dipartimenti, cantoni e comuni, secondo le norme della Costituzione di quella Repubblica[61]. Ogni dipartimento contava un certo numero di cantoni ed era retto da un’amministrazione dipartimentale, composta da tre membri[62]. Ogni cantone era formato dal capoluogo e dai comuni ad esso soggetti, che concorrevano a formare con il capoluogo la municipalità di cantone, l’organo di governo cantonale[63].

I dipartimenti, creati sul modello francese, erano otto e assunsero il nome di un fiume o altro elemento geografico: Cimino, Circeo, Clitunno, Metauro, Musone, Tevere, Trasimeno, Tronto. Il dipartimento del Metauro, che aveva come capoluogo Ancona, era diviso in quindici cantoni, tra cui Cagli, Fano, Fossombrone, Pergola, S. Angelo in Vado,  Mombaroccio, Senigallia, Urbania e Urbino[64].

L’articolo 7 sollecitava la definizione delle circoscrizioni cantonali e comunali[65]. Essa fu effettuata con la legge Dallemagne del 2 germile (22 marzo) e fu un’operazione maldestra e infelice: la volontà di accontentare qualche comunità e il desiderio di tagliare radicalmente i ponti con il passato provocarono una sistemazione dipartimentale sconcertante[66].

L’inglobamento nella Repubblica Romana significava per le città marchigiane un aggravamento della disperata crisi economica che le attanagliava a causa delle due invasioni francesi, delle spese eccezionali per la difesa, delle distruzioni perpetrate da invasori e da insorgenti, delle ricorrenti svalutazioni monetarie. I Francesi in particolare avevano requisito buoi, cavalli e fieno, rendendo difficile persino la prosecuzione dei lavori campestri, avevano sottratto metalli preziosi alle chiese e ai monti di pietà, avevano messo a sacco alcuni centri importati come Fossombrone e, ad Urbino, asportando l’ottone della fabbrica di spille Albani, avevano aumentato la disoccupazione degli abitanti. I comuni, a loro volta, pressati dalla necessità, avevano attivato una serie di imposizioni sui generi agricoli, la proprietà terriera e gli abitanti della campagna. La Repubblica Romana appariva d’altronde tutt’altro che solida: all’indifferenza delle masse proletarie e contadini, che non tarderà a mutarsi in aperta ostilità, facevano riscontro la scarsa coesione politica della nuova classe dirigente e l’umiliante tutela esercitata su di essa dai francesi, preoccupati di ricavare il maggior profitto dalla conquista e di frenare la diffusione delle idee unitarie, che andavano creando nelle cerchie giacobine italiane uno stato d’animo decisamente ostile alla politica del Direttorio”[67].

La moneta d’oro e d’argento, già rarefattasi negli ultimi anni del dominio pontificio per la continua emissione di cedole, spariva intanto dalla circolazione, sostituita dagli assegnati repubblicani, che erano emessi in tale quantità da perdere quotidianamente parte del potere d’acquisto e che, per l’obbligo fatto ai comuni di accettarli al loro valore nominale, aumentavano il dissesto delle municipalità”[68]. Massiccio in questo periodo anche la vendita di beni ecclesiastici, appartenenti a confraternite, opere pie, comunità[69].

 

Il “Viva Maria” del 1798

Il ritorno dei Francesi, e dei loro alleati, fece di nuovo precipitare la situazione e cominciarono a moltiplicarsi i moti degli insorgenti, sempre più attivi dal marzo-aprile 1798. Furono numerose le insurrezioni nelle Marche, specialmente nella valle del fiume Esino, ma la rivolta principale fu quella del “Viva Maria”, che ebbe origine nella zona di Città di Castello, in Umbria, nel Dipartimento del Metauro (ma al di là dello spartiacque appenninico e dei vecchi confini della Legazione di Urbino).

Nell’aprile 1798, tra aprile e maggio a Città di Castello si adunarono sei-settemila contadini che, guidati da un sacerdote di Lamoli (don Antonio Giorgio Bernardini), al grido di “Viva Maria”, uccisero i partigiani dei Francesi e saccheggiarono le loro sostanze. Dalla città tifernate dilagarono anche al di qua dello spartiacque appenninico, entrando senza incontrare resistenza in Mercatello, S. Angelo in Vado (8 maggio) e Urbania (9 maggio): vennero deposte le municipalità repubblicane, abbattuti gli alberi della libertà (simbolo del nuovo regime), minacciati i partigiani della Repubblica[70].

Gli insorti cercarono anche di prendere Urbino: verso mezzogiorno del 9 maggio circa 250 insorgenti erano intorno alla città. La mattinata del 10 fu occupata nello scambio di tiri di artiglieria tra insorgenti e cittadini, senza grandi danni né da una parte né dall’altra. Alle 13.30 circa giunsero poi ad Urbino circa 450 soldati francesi provenienti da Gubbio che attaccarono gli insorgenti: subito questi si dispersero, inseguiti dai francesi e dalle guardie nazionali[71].

 

Il crollo della repubbliche giacobine (1799).

Ma il crollo dei regimi repubblicani era solo rimandato. Nell’aprile 1799 gli eserciti coalizzati austro-russi dilagarono in Italia facendo crollare le repubbliche filofrancesi, tra cui la Cisalpina (27 aprile: battaglia di Cassano d’Adda; 17-20 giugno: battaglia della Trebbia). Un grande aiuto fu dato ai coalizzati, nella nostra provincia, dagli insorgenti, particolarmente numerosi nella zona collinare e montana (la zona costiera era relativamente sicura per i Francesi dato che ad Ancona, che avrebbe resistito fino al novembre di quell’anno, quando già tutta l’Italia centrale era nelle mani della coalizione, erano stati lasciati il generale Monnier e tremila uomini).

A Pesaro l’11 maggio 1799 entrava, insieme a mille soldati e 18 cannoni, il generale cisalpino La Hoz, che cercava di attuare un disegno indipendentista nella Romagna, grazie anche alla collaborazione del generale Pino. Vistosi abbandonato da parte dei suoi uomini (tra cui lo stesso Pino) decise di allontanarsi, nella notte tra 13 e 14, dalla città e di recarsi in Umbria: si sarebbe unito agli  insorgenti e, nominato “Generale dell’Insurrezione di Romagna”, avrebbe nei mesi successivi impegnato i francesi nelle Marche e nella Romagna[72].

 

Prime sconfitte francesi

Il 16 maggio naviglio alleato si faceva vedere al largo delle coste marchigiane[73]. Il 25 maggio navi della coalizione furono viste a Fano, dove parte della popolazione invitò la flotta russo-turca a sbarcare e ad occupare la città; alcuni popolani poi cercarono di chiudere i Cisalpini fuori dalle mura. Ma i coalizzati si limitarono a scambiare colpi di cannone con i nemici e la rivolta fu sedata dall’ex cavaliere Andrea Galantara, uno dei principali esponenti della municipalità fanese. Tuttavia i provvedimenti presi dalle autorità francesi furono molto duri: nei giorni successivi gli esponenti della municipalità furono destituiti e arrestati e la città, multata di 50.000 piastre, fu anche obbligata ad inviare ventiquattro ostaggi ad Ancona[74].

Qualche giorno dopo i Francesi subirono le prime cocenti sconfitte: il 30 maggio furono espulsi, a furor di popolo, da Rimini; il 7 giugno gli insorgenti occupavano Pesaro (saccheggiando il quartiere ebraico)[75]. L’8 i ribelli tentarono vanamente di occupare Fano[76]; il 9 i pesaresi respinsero le truppe (800 uomini) guidate dal generale Monnier che cercava di riprendere quella città[77]. Il 12 giugno Fano fu attaccata e conquistata da coalizzati (Russi e Turchi) e insorgenti, mentre i francesi si ritiravano ad Ancona[78]. Il 13 entravano in Fossombrone, mentre fuggivano i repubblicani, i conti Giuseppe Marzi e Antonio Mauruzi, che avevano nei giorni precedenti sollevata la campagna[79]. Il 14 ad Urbino prendevano il potere le forze antirepubblicane[80].

Nel frattempo aveva ripreso vigore, nel Montefeltro (annesso, con Pesaro, alla Cisalpina), la ribellione del “Viva Maria” , che aveva ora il suo centro principale ad Arezzo[81]. Il 30 maggio insorse Pieve S. Stefano e le milizie aretine entrarono a Sansepolcro bene accolte dalla popolazione[82]. Il 5 giugno si installò a Sestino una “deputazione provvisoria”, collegata al “Viva Maria” e alle truppe imperiali, con il programma di difendere la religione e rimettere nel trono il legittimo sovrano (Sestino apparteneva al Granducato di Toscana)[83]. Da Sestino l’insurrezione dilagò nel Montefeltro: il 5 giugno insorse Pennabilli[84] e ben presto tutto il Montefeltro fu nelle loro mani, ad eccezione del forte di S. Leo, dove la guarnigione francese si sarebbe arresa agli insorgenti il 13 di luglio[85].

Lasciate agli insorti le zone montane, ormai indifendibili, i Francesi si concentrarono su zona costiera e via Flaminia: il 22 giugno una colonna proveniente da Ancona rioccupò Senigallia (mentre Russi e Turchi si reimbarcano)[86]; il 23 Fano[87], il 24 Fossombrone[88]. Il 25 la colonna saccheggiò Acqualagna e occupò Cagli, da cui si diresse a Fabriano e a Jesi[89]. Ma, partiti i francesi, vennero di nuovo abbattute in tutte le città dell’interno le insegne e le magistrature repubblicane.

 

Il calvario di Fano.

Mentre gli austro-russi dilagavano in Italia centrale (il 24 giugno giungeva ad Arezzo il generale austriaco Carlo Schneider; il 28 giugno veniva presa Siena, il 7 luglio Firenze)[90], Fano continuava a trovarsi sulla linea di confine tra zone liberata e zona sotto il controllo delle truppe francesi di stanza ad Ancona: dalla fine di giugno alla fine di luglio fu persa e ripresa dai due schieramenti diverse volte.

Il 30 giugno fu effettuato un duplice attacco, per mare e per terra rispettivamente da Imperiali e insorgenti[91]. Il 2 luglio gli attaccanti si presentarono in forze sia per terra (insorgenti), sia per mare (quindici imbarcazioni che cannoneggiarono la città fino alle tre di notte). Il giorno successivo i Francesi si ritirano e insorgenti e coalizzati entrarono in città, sottoponendola al saccheggio[92]. Ma i Francesi ritornarono l’11 luglio: era difesa da 150 schiavoni (soldati austriaci) e 300 insorgenti che nulla poterono contro il massiccio assalto. Dopo tre ore di combattimento essi si sbandarono: molti uomini furono uccisi nella fuga, la città sottoposta ad un nuovo saccheggio[93]. Finalmente la città fu abbandonata dai Francesi il 28 luglio: due giorni prima coalizzati ed insorgenti si erano presentati in forze sotto le mura di Fano e la resistenza era impossibile. La città fu sottosposta ad un ennesimo saccheggio[94].

 

Governo provvisorio austriaco.

Mentre nel Lazio si insediarono le truppe napoletane, nelle Marche e nell’Umbria l’ordine era mantenuto dagli Austriaci. Fu nominato dalla corte di Vienna un Imperial Regio Commissario nella persona di Giovanni Domenico De-Iacobi che cercò di punire severamente i colpevoli di irregolarità amministrative commesse nel precedente triennio. Suscitò pertanto, col suo comportamento inflessibile, un forte malcontento e si moltiplicarono le accuse, infondate, contro di lui: fu richiamato in Austria e sostituito, nell’ottobre 1799, dal comandante Wanwick de Cavallar, con lo stesso compito di ordinare e organizzare politicamente e amministrativamente le province e prepararle ad una prolungata occupazione austriaca[95].

Il 31 gennaio 1800 un suo editto costituì, in tutte le Marche e in parte dell’Umbria, dal 15 febbraio successivo, un “Governo generale” denominato “Cesarea Regia Provvisoria Reggenza di Stato”: esso aveva sede ad Ancona ed era composto da cinque reggenti. Erano ricostituite integralmente le magistrature comunali[96].

Ma il regio-cesareo governo ebbe vita breve: le due regioni furono riconsegnate al papa il 27 giugno 1800, quando già i Francesi, con la battaglia di Marengo, avevano riconquistato il predominio in Italia e si preparavano a formare la seconda Cisalpina[97].

Pio VII riprese possesso dello Stato il 1 luglio; il 7 venne inviato come governatore della provincia di Urbino il delegato apostolico mons. Giovanni Cacciapiatti di Novara[98].

 

La seconda Restaurazione pontificia

Il 25 giugno 1800 il card. Consalvi, prosegretario di Stato, pubblicava a Loreto l’editto per la sistemazione dei territori dello Stato della Chiesa: veniva naturalmente ricostituito lo “Stato” (delegazione) di Urbino e Pesaro nei confini precedenti, mentre Fano era inserito nella neocostituita delegazione apostolica di Ancona[99]. Il 16 agosto di quell’anno però, nell’ambito di una risistemazione complessiva del territorio delle delegazioni marchigiane, la città metaurense veniva posta nella Delegazione di Urbino, da cui, da quel momento, non sarebbe stata più separata[100].

Problemi invece interessarono il confine settentrionale della Delegazione, dato che  nel frattempo era stata ricostituita la Repubblica Cisalpina, che controllava la Romagna e pretendeva di estendere la sua giurisdizione su Pesaro e sul Montefeltro.

La città di Pesaro fu contesa dai due Stati per più di un anno: era stata appena restituita alla Chiesa, con il resto dello Stato di Urbino, dagli Austriaci il 27 giugno 1800, quando fu occupata dai Francesi il 20 luglio dello stesso anno. Allontanatisi dalla città, vi ritornarono i funzionari pontifici (6 agosto) fino al 18 agosto, quando tornarono i Francesi. Il 6 dicembre 1800 però gli Austriaci restaurarono le magistrature pontificie che rimasero in carica fino al 25 gennaio 1801, quando rientrarono i Francesi: costoro infine la restituirono alla Santa Sede il 23 settembre di quello stesso anno[101].

Nello stesso gennaio 1801 “le truppe franco-cisalpine si riaffacciavano, cacciando da Pesaro il generale austriaco Sommaria e iniziando severe repressioni del risorto brigantaggio, col saccheggio di Torre, Montevecchio, Tomba, Mondavio e la fucilazione dei promotori delle rivolte”[102].

Solo il concordato stipulato tra la  Santa Sede e la Francia nel luglio del 1801 segnerà l’inizio per la Legazione di un periodo di relativa tranquillità e consentirà a Pio VII di riprendere l’opera riformatrice iniziata dal suo predecessore”[103].

Anche il Montefeltro fu conteso dai due Stati, che fu occupato integralmente dai Cisalpini nella primavera-autunno del 1801, quindi restituito alla Delegazione di Urbino (ma rimasero nelle loro mani Piandimeleto con gli annessi, Talamello e Perticara) nel giugno-luglio 1802[104].

 

Le riforme di Pio VII

Il ritorno dello Stato di Urbino alla S. Sede non arrecò troppi benefici alle popolazioni: le comunità versavano in una grave crisi amministrativa ed economica a causa delle spese elevate sostenute nel periodo precedente (e che dovevano ancora sostenere per il frequente passaggio delle truppe francesi, da e per Ancona o il Meridione, occupato dai Francesi nel 1806); a ciò si aggiungeva una forte insofferenza per l’inetto e retrogrado governo ecclesiastico, non più al passo con i tempi[105].

Le riforme iniziarono con il motu proprio dell’11 marzo 1801, che istituiva il “libero commercio delle grascie, sopprimendo le corporazioni ed introducendo un’unica gabella di consumo”. Esso segnava definitivamente l’abbandono del sistema vincolista e l’accettazione del liberismo[106].

Il 19 marzo 1801 inoltre, riprendendo vecchi progetti elaborati durante il pontificato di Clemente XIII, “si provvedeva contemporaneamente a riassestare le finanze locali ed a riformare il sistema tributario: dopo avere addossato alle casse statali i debiti delle comunità – delle quali si incameravano i beni -, si provvedeva a revocare quella indefinita molteplicità di tasse gravanti sui comuni a vantaggio della Camera Apostolica, sostituendola con due sole imposte: una dativa reale di sei paoli per ogni cento scudi di estimo rustico e di due paoli  per ogni cento scudi sulle case da pagarsi esclusivamente nel luogo ove i beni collettati ritrovano situati ed una dativa personale articolata nell’acquisto  obbligatorio a prezzo fisso di dieci libbre di sale a persona e in una tassa sul macinato di baiocchi 51 per ogni rubbio di grano”[107].

Il 4 novembre 1801 venivano inoltre abolite le tratte. “Al loro posto, per far godere i vantaggi del commercio internazionale anche ai piccoli proprietari, era istituito un regolamento che prevedeva per i cereali un dazio di esportazione, che si faceva più gravoso via via che aumentavano i prezzi sul mercato interno”[108]. Venivano anche liquidate le annone[109] e ritirata la moneta erosa[110].

Malgrado i suoi limiti, l’opera legislativa di Pio VII incontrò non poche opposizioni, non solo… al vertice dello Stato…, ma anche in periferia fra gli ecclesiastici che perdevano immunità e privilegi, fra gli esponenti della nobiltà che avevano finora speculato sulla concessione delle tratte e, in maniera assai vivace, tra il popolo che temeva che la libertà di commercio dei cereali e delle grasce lasciasse la definizione dei prezzi all’arbitrio dei proprietari e degli speculatori borghesi”[111]. L’aumento del carico fiscale (dazi su sale, macinato, vino, carne olio; imposte dirette come il focatico), inoltre, in condizione di crisi economica e povertà diffusa, alienò al Pontefice molte simpatie, il che può spiegare come, malgrado i successi ottenuti in diversi campi, la media e piccola borghesia seguitò a guardare ai modelli politici che si organizzano nell’Italia napoleonica.

 

Nel Regno Italico

Il passaggio al Regno Italico avvenne nel maggio 1808: già le truppe napoleoniche erano stanziate nelle città costiere delle Marche fino ad Ancona dal 1805 (ma l’amministrazione civile era rimasta nelle mani dei funzionari pontifici); all’inizio del 1808 il generale Miollis occupò il resto dello Stato e, il 2 febbraio, la stessa Roma; il 2 aprile le Marche erano annesse al Regno Italico (mentre il resto dello Stato, il 17 maggio 1809, direttamente all’Impero francese)[112].

Al momento dell’annessione al Regno italico venne ricostituito il dipartimento del Metauro (suddiviso in distretti, cantoni e comuni). Il riparto territoriale rispecchiava, grosso modo, quello precedentemente in vigore sotto lo stato Pontificio e restò in vigore fino a tutto il 1810[113].

Un nuovo assetto territoriale del Regno italico fu invece varato col Decreto vicereale 28 settembre 1810, ed entrò in vigore il 1 gennaio 1811: esso riuscì a organizzare, in modo più razionale del precedente, il territorio del Dipartimento ed anche a delineare un confine più razionale tra Metauro e Rubicone[114].

 

Pregi e limiti dell’ultima occupazione francese (nel Regno Italico)

Sono diversi i vantaggi che il nuovo Stato portava agli abitanti la nostra provincia, specialmente ai ceti borghesi: venivano offerte importanti occasioni di occupazione e carriera nella nuova burocrazia o nell’esercito; venne riorganizzato l’ordinamento scolastico; furono avvantaggiate alcune industrie per l’immissione in uno Stato più ampio e vitale di quello pontificio; inoltre l’amministrazione era ben organizzata, la moneta solida, i prezzi dei generi agricoli in costante aumento; venne infine smantellata la legislazione feudale e venduti in massa i beni ecclesiastici[115].

Naturalmente erano innegabili anche gli elementi negativi per le stessa classi borghesi,  sia in campo economico sia in quello politico: venne in primo luogo creato un ostacolo alla circolazione commerciale sul crinale appenninico, dato che i prodotti che venivano convogliati a Roma e nel Lazio sono sottoposti a limitazione a causa della politica doganale dell’Impero (sia la Toscana che il Lazio erano stati direttamente annessi all’Impero Francese); il commercio adriatico era in crisi per una serie di circostanze (fallimento del blocco commerciale antinglese, presenza di navi corsare, chiusura dei mercati tedeschi con l’annessione francese del porto di Trieste); anche il carico fiscale divenne ad un certo punto insopportabile[116]. A livello politico diventò sempre più forte il senso di frustrazione per la totale mancanza di indipendenza a cui era sottoposti gli Italiani, soggetti ad una dominazione straniera che cercava in primo luogo i propri vantaggi.

Si spostò quindi all’opposizione una parte consistente della borghesia, cioè di quella classe che, in un primo tempo, era stata stabile sostegno del nuovo regime e si andarono rapidamente organizzando le società segrete “sul modello della Massoneria, che aveva radici nelle Marche già prima della rivoluzione repubblicana e che, potenziata da Napoleone con finalità cortigiane, si era molto estesa fra il 1808 e il 1813. Alla organizzazione settaria sul substrato massonico danno un valido contributo le mene antinapoleoniche degli inglesi, la sorda ostilità degli unitari e dei giacobini superstiti, che si ritengono traditi dall’indirizzo francofilo e conservatore dato da Napoleone alla rivoluzione italiana, l’insofferenza della burocrazia e dell’ufficialità, trasformate in uno strumento puramente tecnico al servizio di una volontà politica alla cui formazione non sono minimamente chiamate a contribuire”[117].

Se la borghesia vedeva nel nuovo regimi elementi positivi e negativi, le classi popolari vedevano (e subivano) solo i secondi: venne introdotta la coscrizione obbligatoria; venne offeso, con la deportazione del pontefice, il sentimento religioso; fu aumentato a dismisura il carico fiscale mentre venivano meno le precedenti forme di garanzia offerte dagli ordini religiosi (i cui beni venivano in gran parte venduti)[118].

A Montesecco, per esempio, nel 1808 la tensione si fece palpabile il 21 agosto 1808, ma la situazione precipitò, a causa del malcontento per la coscrizione, alla sera del giorno successivo e, in poco tempo, si estese ai paesi vicini (ma non a Pergola e S. Lorenzo)[119]. Il giorno 29 le truppe francesi, divise in tre colonne partite da Pergola, S. Lorenzo e Arcevia, assalirono il paese, abbandonato dalla popolazione, lo saccheggiarono per tre giorni e lo diedero alle fiamme. Continuarono il saccheggio le Guardie Nazionali di S. Lorenzo, guidate dal Durante che aveva comandato gli insorgenti nel 1797[120].

 

La fine del Regno Italico

Nell’autunno del 1812 Napoleone subiva la disfatta della campagna di Russia; nel 1813, dopo la sconfitta di Lipsia, la situazione precipitava anche in Italia.

Sul finire dell’anno i napoletani di Gioacchino Murat, alleati dell’Austria, occupavano le Marche e, entrati a Pesaro il 3 febbraio 1814, ordinavano di stabilire governi provvisori in tutta la provincia[121].

In quell’anno il Montefeltro si sollevò di nuovo: il 27 ottobre 1813  furono uccisi alcuni appartenenti alla guardia nazionale di Mercato Saraceno; nel novembre  gli insorgenti occupavano Mercato Saraceno, Sarsina, Pennabilli, Talamello, S. Agata[122]. Il 24 dicembre 1813 il generale austriaco Nugent creava il “Magistrato governativo della provincia e diocesi feretrana, domini di Carpegna e Scavolino, e diocesi di Sarsina”, con sede a Mercatino di Talamello. Subito il magistrato governativo abolì la coscrizione obbligatoria e concesse sgravi fiscali e importanti benefici economici alle popolazioni insorte: la situazione nella zona, che stava scivolando verso l’anarchia, si normalizzò[123]. Il Magistrato provvisorio rimase al potere fino al maggio 1814 (quando tornarono i funzionari pontifici nelle Marche settentrionali), anche se nel febbraio di quell’anno un accordo con il re di Napoli prevedeva il passaggio del distretto del Metauro al Murat: lo stato generale di insorgenza che subito si riaccese fece mantenere la situazione precedente[124].

 

L’occupazione napoletana

Con il ritorno dei funzionari pontifici a Pesaro, Urbino, Fossombrone e Cagli (maggio 1814), l’occupazione napoletana del dipartimento del Metauro fu ben presto ridotta alla sua parte meridionale (Pergola, Ancona e Senigallia): la divisione fu ratificata nel mese di luglio 1814[125]. Qualche disordine intervenuto nella zona controllata dai Napoletani fu da costoro duramente represso[126].

Durante i Cento giorni la provincia fu occupata e annessa definitivamente al Regno di Napoli, che dichiarò guerra all’Austria il 15 marzo 1815. Ma l’avventura murattiana ebbe breve durata: il 27 aprile gli Austriaci erano a Gubbio, il 28 a Fabriano, il 29 a Pergola; il 2-3 maggio sconfiggevano definitivamente i napoletani a Tolentino[127]. Un governo provvisorio austriaco (maggio-luglio 1815) avrebbe ceduto presto il potere alle ricostituite autorità pontificie[128].



[1]S. PETRUCCI, Insorgenti marchigiani - Il trattato di Tolentino e i moti antifrancesi del 1797, Macerata 1996, pp. 39-46. I pontifici erano convinti che si trattasse solo di attraversamenti di truppe dirette dalla Lombardia alla Toscana.

[2]Petrucci, Insorgenti marchigiani, p. 48. Ancona fu occupata dai francesi solo dopo il trattato di Tolentino.

[3]Petrucci, Insorgenti marchigiani, p. 49. Per Fano vds. Tommaso MASSARINI, Cronaca fanestre o siano memorie delle cose più notabili occorse in questi tempi nella città di Fano, a cura di Giuseppina Boiani Tombari, in "Nuovi Studi Fanesi", quaderno n. 6, Fano, 2001, p. 28 ss.

[4]S. CAPONETTO, Il giacobinismo nelle Marche. Pesaro nel  triennio rivoluzionario (1796-1799), in “Studia Oliveriana”, X (1962), pp. 1-121, a pag. 37.

[5]Petrucci, Insorgenti marchigiani, pp. 55-58. Tra l’altro i Francesi avevano creato nell’ottobre 1796, nella Romagna occupata la Confederazione – poi Repubblica – Cispadana, non riconosciuta dallo Stato della Chiesa.

[6]G. VERNARECCI, Fossombrone dai tempi antichissimi ai nostri, vol. III, Fossombrone 1917, p. 10.

[7]Petrucci, Insorgenti marchigiani, pp. 74-78.

[8]Vernarecci, Fossombrone, III, p. 10; G. ALLEGRETTI, Note sulle mutazioni nei comuni di Montefeltro e Massa (1790-1814), in "Studi Montefeltrani", 6/7 (1978/79), pp. 69-110, a pag. 74; G. GARAVANI, Urbino  e il suo territorio nel periodo francese (1797-1814), Parte I (febbraio-agosto 1797), Urbino 1906, p. 23; Petrucci, Insorgenti marchigiani, p. 111.

[9]Caponetto, Il giacobinismo, pp. 46-48; Petrucci, Insorgenti marchigiani, pp. 111-112.

[10]R. PAOLUCCI, Mons. Severoli e l’invasione francese del Ducato di Urbino, in “Studia Picena”, VIII (1932), pp. 1-56, a pag. 2; Petrucci, Insorgenti marchigiani, p. 112. "Il 7 a Pesaro fu stabilita l'Amministrazione centrale della Provincia d'Urbino che coincideva con la Legazione di Urbino cui venivano aggregati anche Fano e il suo territorio. Il suo governo veniva affidato da Napoleone ad una commissione di sette membri - uno per città - eccetto S. Angelo in Vado, Urbania e Cagli per punirle della loro ostilità dimostrata contro emissari francesi... Tutte le località vennero chiamate a prestare giuramento ai francesi entro cinque giorni". Garavani, Urbino, I, 27. "L'Amministrazione centrale, composta da 7 cittadini rappresentanti delle varie città della Provincia; i membri furono eletti, senza neanche consultarli, da Bonaparte e dai suoi partigiani: erano l'ex marchese Giovan Battista Antalti per Urbino, Francesco Maria Mosca e Domenico Mancini per Pesaro, Filippo Uffreducci per Fano, Ubaldo Galeotti per Gubbio, Pietro Paoloni per Fossombrone, Giovanni Maria Grossi per Senigallia".

[11]Allegretti, Note, 74.

[12]Massarini, Cronaca fanestre, p. 32. Petrucci, Insorgenti marchigiani, p. 115.

[13]Petrucci, Insorgenti marchigiani, pp. 78-83 e 114.

[14]Garavani, Urbino, I, 30.

[15]Petrucci, Insorgenti marchigiani, pp. 83-90.

[16]Garavani, Urbino, I, p. 48

[17]Per l’atteggiamento dell’alto clero, basti vedere Paolucci, Mons. Severoli, passim.

[18]Garavani, Urbino, I,  p. 73.

[19]Garavani, Urbino, I, 43-44.

[20] Garavani, Urbino, I, pp. 51-3; Petrucci, Insorgenti marchigiani, p. 154.

[21] Garavani, Urbino, I, pp. 53-54; Petrucci, Insorgenti marchigiani, pp. 154-155.

[22]Vernarecci, Fossombrone, III, p. 15; Garavani, Urbino, I, p. 57. Cagli però rimase neutrale; Pergola fu occupata dagli insorgenti solo il 4 marzo.

[23]Petrucci, Insorgenti marchigiani, pp. 155-156.

[24]Petrucci, Insorgenti marchigiani, p. 156.

[25]Garavani, Urbino, I, p. 60.

[26]Garavani, Urbino, I, p. 61.

[27]Garavani, Urbino, I, pp. 61-62; Vernarecci, Fossombrone, III, p. 16; Petrucci, Insorgenti marchigiani, p. 158.

[28]Garavani, Urbino, I, pp. 61-66; Petrucci, Insorgenti marchigiani, pp. 158-159.

[29]Vernarecci, Fossombrone, III, pp. 18-20; Petrucci, Insorgenti marchigiani, p. 159-165.

[30]Garavani, Urbino, I, p. 68.

[31]Garavani, Urbino, I, pp. 69-72;  Petrucci, Insorgenti marchigiani, pp. 165-168.

[32]Garavani, Urbino, I, p. 86. Le prime notizie sul trattato giunsero ad Urbino il 28 febbraio.

[33]Garavani, Urbino, I, pp. 76-81; Petrucci, Insorgenti marchigiani, pp. 168-169.

[34]Garavani, Urbino, I, p. 84; Vernarecci, Fossombrone, III, p.  27. Rimasero comunque ribelli nella zona e, il 27 marzo, un distaccamento francese che era penetrato della gola, fu decimato da colpi di fucile e macigni fatti rotolare dall'alto.

[35]L. NICOLETTI, Di Pergola e dei suoi dintorni, Pergola 1899, p. 260; Garavani, Urbino, I, p. 74; Petrucci, Insorgenti marchigiani, p. 187.

[36]Nicoletti, Pergola, pp. 260-262; Paolucci, Mons. Severoli, pp. 13-15.

[37]Nicoletti, Pergola, pp. 263-265; Garavani, Urbino, I, pp. 74-75; Petrucci, Insorgenti marchigiani, pp. 191-192; A. POLVERARI (a cura di), Castelleone di Suasa, Ostra Vetere 1984, pp. 250-254; A. POLVERARI, Monteporzio e Castelvecchio nella storia, Urbino 1980, p. 92.

[38]Nicoletti, Pergola, pp. 266-267; Petrucci, Insorgenti marchigiani, pp. 192-193.

[39]Petrucci, Insorgenti marchigiani, pp. 170-172. S. Leo era tenuta, per i francesi, dalla precedente guarnigione che era passata al nuovo regime. La comandava il patrizio urbinate Sempronio Semproni.

[40]Garavani, Urbino, I, p. 75; Petrucci, Insorgenti marchigiani, pp. 174-184; A. FRANCHINI, Tavoleto tra cronaca e storia, Rimini, 1997, pp. 81-82. Il punto di vista dei francesi è rispecchiato dalla lettera ufficiale a stampa del generale divisionario Sahuguet, datata 1 aprile, da Rimini, a mons. Severoli, riportata da Paolucci, Mons. Severoli, p. 39.

[41]Pesaro fu evacuata dai francesi il 4 aprile (Caponetto, Il giacobinismo, pp. 58-59), Allegretti, Note sulle mutazioni, p. 75. Da notare che, nel Montefeltro, Piandimeleto e le comunità ad essa sottoposte, isole amministrative della Legazione di Romagna nella Legazione di Urbino, restarono sotto il governo provvisorio filofrancese ed entarono, nel maggio 1797, nella Cisalpina (Allegretti, Note sulle mutazioni, p. 78).

[42]Allegretti, Note sulle mutazioni, p. 78.

[43]Garavani, Urbino, II, 11-32; G. ALLEGRETTI (a cura di), Frontino, Villa Verucchio 1990, p. 125 ("I possidenti di campagna restarono abbarbicati all'antico, i signori di paese parteggiarono per il nuovo, i non abbienti appresero a disprezzar l'antico e odiare il nuovo").

[44]A Pergola in particolare fu necessario inviare un distaccamento di truppe alla fine di novembre 1797 perché il popolo era in rivolta per le forte tasse imposte e per la mancanza di grano (Nicoletti, Pergola, p. 269). Nel Montefeltro si cercò anche, nell'estate del 1797, di organizzare un'insurrezione "indipendentista": i congiurati, ostili ai Cisalpini e ai Francesi, erano delusi però dal mancato riconoscimento da parte dei Pontifici dei loro meriti nella precedente insurrezione. Il piano sovversivo viene descritto e analizzato da Petrucci, Insorgenti marchigiani, pp. 193-202; vds. anche P. SORCINELLI, Note sul movimento giacobino nella legazione di Urbino, in "Atti e Memorie di Storia patria per le Marche", serie. VIII, vol. VII (1971-73), pp. 197-219, alle pagg. 213-214).

[45]R. PACI, L’ascesa della borghesia nella Legazione di Urbino dalle riforme alla Restaurazione, Milano 1966, p. 74.

[46]Paci, L’ascesa della borghesia, pp. 74-75.

[47]Petrucci, Insorgenti marchigiani, p. 138.

[48]Garavani, Urbino, II, p. 32.

[49]Petrucci, Insorgenti marchigiani, p. 111. La pace continentale, tra Francia e Impero, fu firmata il 17 ottobre. La repubblica fu proclamata il 19 novembre (bandiera gialla, rossa, blu) dal generale francese Dallemagne, comandante della piazzaforte di Ancona, dietro invito di Napoleone.

[50]Garavani, Urbino, II, p. 32; Allegretti, Note, p. 79.

[51]Garavani, Urbino, II, pp. 32-37; Caponetto, Il giacobinismo, p. 70; Petrucci, Insorgenti marchigiani, p. 139; G.C. MENGOZZI, Montefeltro giacobino, in "Studi Montefeltrani", II (1973), pp. 67-93, a pag. 69. Vds. anche Allegretti, Note, n. 18, pp. 78-79.

[52]Caponetto, Il giacobinismo, p. 71.

[53]Massarini, Cronaca fanestre, p. 37; Garavani, Urbino, II, p. 41; Caponetto, Il giacobinismo, p. 72;  Petrucci, Insorgenti marchigiani, p. 141.-

[54]Garavani, Urbino, II, p. 41; Vernarecci, Fossombrone, III, p. 40.

[55]Nicoletti, Pergola, p. 269.

[56]Garavani, Urbino, II, p.44; Allegretti, Note, p. 79.

[57]Allegretti, Note, p. 79-80: "La presa di possesso fu in questa occasione effettiva, rapida, capillare e, dobbiamo dirlo, non contrastata, non foss'altro per timore di rappresaglie. Neppure il clero oppose resistenza... Per non parlare di figure più illustri e più esplicitamente compromesse coi nuovi governanti, come gli arcivescovi Berioli di Urbino o Codronchi di Ravenna".

[58]Garavani, Urbino, II, p. 46; Petrucci, Insorgenti marchigiani, p. 144.

[59]Garavani, Urbino, II, pp. 46-ss.; N. FERRI, La Comune Repubblicana di Fano, in "Fano", 5 (1972), pp. 69-118, a pag. 74.

[60]Garavani, Urbino, II, pp. 53-57; Vernarecci, Fossombrone, III, pp. 53-56; Ferri, La comune, pp. 74-81; G. ALLEGRETTI, Piandimeleto, Ostra Vetere 1987, p. 110; Allegretti, Note, p. 81; D. CECCHI, Dagli Stati signorili all'età postunitaria: le giurisdizioni amministrative in età moderna, in S. Anselmi (a cura di), "Economia e Società: le Marche tra XV e XX secolo", Bologna 1978, p. 74. Pesaro e Montefeltro apparnennero al distretto del Rubicone. Il confine tra Cisalpina e Romana, che correva tra Fano e Pesaro e zigzagava lungo il corso del Foglia, non fu mai fissato con precisione, cosicchè alcuni paesi erano questionati da entrambi gli Stati.

[61]Cecchi, Dagli Stati signorili, p. 74. Con legge 21 fiorile anno VI (= 10 maggio 1798), nel dipartimento del Metauro furono apportate lievi modifiche all'assegnazione di comuni all'uno od all'altro cantone (Ivi, p. 75).

[62]Cecchi, Dagli Stati, p. 75.

[63]Cecchi, Dagli Stati, p. 75: "I comuni con più di 10.000 abitanti hanno una municipalità propria, formata da sette "edili"; se di popolazione inferiore, hanno un "edile" e un "aggiunto". L'unione degli edili di ogni comune forma la municipalità del cantone...Penosa è l'attività delle amministrazioni e delle municipalità e degli edili in tutte le Marche, isolati e gravati da arbitri e soprusi delle autorità francesi".

[64]Garavani, Urbino, II, p. 87; Cecchi, Dagli Stati, p. 74. Gubbio era inclusa nel dipartimento del Trasimeno.

[65]Allegretti, Note, p. 82:"Ogni amministrazione dipartimentale, nei dieci giorni che seguiranno la sua installazione, determinerà per ogni Cantone del suo Territorio il numero dei Comuni nel quale  questo  Cantone dovrà essere diviso: Essa formerà un quadro esatto di tutti i luoghi ch'Ella crederà dover comporre ogni Comune..."

[66]Garavani, Urbino, II, p. 88: "Basta dare un'occhiata a questo quadro per accorgersi dei molti e gravi difetti della circoscrizione: fatta del resto in fretta e su dati incerti o incompleti da persone incompetenti e ignare dei luoghi, non poteva vernirne fuori che una cosa sciocca e deforme". Vernarecci, Fossombrone, III, pp. 61-62: "La ripartizione fu irrazionale e insensata (non rari i casi di comunità "scomparse" perché non comprese in alcuna ripartizione) e ruppe ad un tratto tante tradizioni storiche, tanti rapporti di vicinanza e gli interessi fra comune e comune, fra castello e castello, fra villa e villa, sanciti da secoli”.

[67]Paci, L’ascesa della borghesia, pp. 79-80. “Oltre alla tassazione ordinaria, nel marzo si ha una prima imposizionedel 3% sui beni privati e del 5% sui beni ecclesiastici; nel luglio si riscuote un prestito forzoso di un terzo sui redditi da 3.000 a 6.000 scudi e di due terzi sui redditi oltre 6.000 scudi; nell’agosto una tassa del 20% sulle proprietà ecclesiastiche da pagarsi in tre giorni e una tassa in derrate del 2% su tutto l’estimo catastale, ripetuta nel dicembre. Altre imposizioni colpiscono gli ex impiegati del Sant’Uffizio, i nemici della Repubblica, il celibato, mentre crescono continuamente le imposte di consumo che ricadono sui ceti più umili”.

[68]Paci, L’ascesa della borghesia, p. 80.

[69]Paci, L’ascesa della borghesia, p. 84 ss.  Vds. anche p. 89: “Tutti gli acquisti vennero poi annullati dal cardinale Consalvi con l’editto del 24 ottobre 1801, che concedeva però agli acquirenti, esclusi gli ebrei, il rimborso nella misura di un quarto, delle somme effettivamente  versate. La pagina dei beni nazionali si chiude perciò in perdita netta e, considerata la natura speculativa della maggior parte degli acquisti, in una grande dilapidazione di ricchezza”.

[70]Garavani II, pp. 61-62; Vernarecci, Fossombrone, pp. 70-71.

[71]Garavani, Urbino, II, 62-68.

[72]Sarebbe morto all'assedio di Ancona il 10 ottobre 1799. Su questo personaggio vds. D. SPADONI, Il generale La Hoz e il suo tentativo indipendentista del 1799, Macerata 1933.

[73]Massarini, Cronaca fanestre, p. 46: Si fecero vedere vari Legni da Guerra in Mare, in numero di 8, fra Moscoviti e Turchi e si ancorarono al largo, avanti la nostra Città; fu spedito in Ancona per aver socorso di truppa e giunse questa.

[74]Massarini, Cronaca fanestre, pp. 46-49; Ferri, La Comune, pp. 94-96.

[75]Caponetto, Il giacobinismo, pp. 112-113; Ferri, La Comune, pp. 101-102.

[76]Massarini, Cronaca fanestre, p. 49: 8 giugno. Fano fu sorpreso dalli Insorgenti che già erano in Pesaro, e qualcuno n'entrorono per Porta Maggiore, nel tempo che il maggior Corpo veniva per soprendere Poreta Giulia; il Commandante, con quel poco di Truppa, circa 200 Patriotti e Civica, li fece fronte per ogni via, ed uno ne restò morto sotto l'Arco di S. Michele, e tutti si ritirorono, ma restorono quattro de difensori feriti.

[77]Massarini, Cronaca fanestre, p. 49: 9 giugno. Di Domenica, sul matino, tornò Monnier e poco dopo, venne un corpo diTruppa, che unita con quella che qui era di Guarnigione, con i Patriotti e quattro pezzi di Artiglieria, in numero in utto di 800 circa, il dopo pranzo marciorono sopra Pesaro e ivi si Batterono con l'Insorgenti e li convennero ritornare mal conci assai, con perdita e vergogna, e dopo aver qui pernottato, la mattina, in seguito, dopo aver lasciata la prima Guarnigione, partirono tutti alla volta d'Ancona. Vds. anche Caponetto, Il giacobinismo, pp. 113-114.

[78]Massarini, Cronaca fanestre, pp. 49-50; Ferri, La Comune, p. 102.

[79]Vernarecci, Fossombrone, III, p. 104.

[80]Garavani, Urbino, II, p. 115 ss.

[81]G. RENZI, Momenti dell'insorgenza nell'Appennino tosco-marchigiano (1799) - parte I: Il "Viva Maria" a Sestino, in Studi Montefeltrani, 6/7 (1978/79), pp. 111-197, p. 113. Per il momento rimaneva sotto controllo francese Città di Castello, la città da dove gli insorgenti avevano tentato, come già visto, verso la metà di maggio 1799, inutilmente l'occupazione di Urbino.

[82]Renzi, Momenti, pp. 124 e 141.

[83]Renzi, Momenti, pp. 142-145; Allegretti, Note, pp. 86-87.

[84]Allegretti, Note, p. 87; Renzi, Momenti, pp. 152-154.

[85]Renzi, Momenti, nota 111, p. 153; Allegretti, Note, p. 87; Mengozzi, Montefeltro giacobino, p. 72).

[86]Massarini, Cronaca fanestre, p. 51.

[87]Garavani, Urbino, II, p. 123.

[88]Massarini, Cronaca fanestre, p. 51; Garavani, Urbino, II, p. 125; Vernarecci, Fossombrone, III, p. 120.

[89]Garavani, Urbino, II, p. 125 (sulla base della relazione del gen. Monnier); Vernarecci, Fossombrone, III, p. 123.

[90]Renzi, Momenti, pp. 159-163.

[91]Massarini, Cronaca fanestre, p. 51.

[92]Massarini, Cronaca fanestre, p. 52.

[93]Massarini, Cronaca fanestre, pp. 53-54.

[94]Massarini, Cronaca fanestre, pp. 54-55: 29 Luglio. La mattina, poi, entrorono l'insorgenti che, unitamente, dettero un sacheggio generale; qui non è possibile concepire la desolazione di questa povera Città, se furon barberi li altri saccheggi, questo lo fu fuor di misura, perchè vedevasi il nostro paesano e circonvicino insorgente benchè colto essere più barbaro del Russo o Turco, medemo. Letti, Quadri, Sedie, Specchi, senza dire le cose migliori, tutto faceva per loro, basti il dire che non furono sicure le Cassette da Commodo con l'immondizie dentro, e ciò che portar via non potevano o non volevano, spezzavano, e rendevano inutile. In campagna poi, nel circondario di qualche miglia, fu più lento sì, ma durò anche questo da 5 o 6 giorni. Ancona fu quindi assediata dagli austro-russi e si arrese, dopo 105 giorni di assedio, il 13 novembre 1799: i soldati rimasti, circa 1600, furono autorizzati a rientrare in Francia (R. PANICALI, Fano e l'occupazione francese del 1799. Una lettera autografa del gen. Monnier al generale Mac Donald, in "Nuovi Studi Fanesi" 1, 1986, pp. 153-170, alle pagg. 168-169). Garavani (Urbino, II, 127) riporta la data del 13 novembre.

[95]Garavani, Urbino, II, pp. 121-139.

[96]D. CECCHI, Dagli Stati signorili all'età postunitaria: le giurisdizioni amministrative in età moderna, in S. Anselmi (a cura di), "Economia e Società: le Marche tra XV e XX secolo", Bologna 1978, p. 76.

[97]Allegretti, Note, pp. 87-88.

[98]Garavani, Urbino, II, p. 143.

[99]Cecchi, Dagli Stati signorili, pp. 76-77. I Delegati riunivano nelle loro mani una "somma notevolissima di poteri politici, amministrativi, e persino giudiziari" (ivi, p. 78).

[100]Cecchi, Dagli Stati signorili, p. 77.

[101]Allegretti, Note, p. 89.

[102]Garavani, Urbino, III, pp. 2-11.

[103]Paci, L’ascesa della borghesia, p. 93.

[104]Allegretti, Piandimeleto, p. 110; Allegretti, Note, pp. 89-91. Monterone è stato incluso per errore, dato che in realtà seguì le sorti della Toscana.

[105]Del resto l'occupazione francese, che interessò tutto lo Stato della Chiesa nel 1808, è anticipata nella nostra provincia di qualche anno, quando Napoleone ordinò di occupare tutte le Marche settentrionali, fino ad Ancona, per impedire che inglesi o loro alleati si impadronissero di quest'ultima città (1805).

[106]Paci, L’ascesa della borghesia, p. 100.

[107]Paci, L’ascesa della borghesia, p. 100. Vds anche nota 11 pp. 100-101: “Nella Legazione di Urbino prima dell’occupazione francese il macinato camerale era di 18 bajocchi al rubbio…, mentre il sale si pagava  4 quattrini alla libbra anziché 12 come veniva disposto nel 1805” e pag. 106: “questa tassa (la tassa dei sei paoli) nelle generali condizioni di depauperamento, parve qualcuno insostenibile e suscitò sorde resistenze e diffusi malcontenti”. Quest’ultima tassa colpiva in modo particolare le comunità dell’Appennino, il valore dei cui terreni era stato erroneamente sovrastimato nella precedente catastazione.

[108]Paci, L’ascesa della borghesia, p. 102.

[109]Paci, L’ascesa della borghesia, p. 103.

[110]Paci, L’ascesa della borghesia, p. 104.

[111]Paci, L’ascesa della borghesia, p. 105.

[112]Cecchi, Dagli Stati signorili, p. 78. Vds. Massarini, Cronaca fanestre, p. 84: (11 Maggio 1808) Alle ore 18 fu affisso il Decreto Imperiale della Incorporazione del Ducato d'Urbino, Marca Fermana e Camerineese al Regno Italico decretato dall'Imperatore Napoleone fin dai due di Aprile, ed in conseguenza, anche Fano restò soggetta a questo.

[113]Cecchi, Dagli Stati signorili, p. 79; Allegretti, Note, p. 93. E' riportato da F. CORRIDORE, La popolazione dello Stato Romano, 1656-1901, Roma 1906, pp. 251-254.

[114]Allegretti, Note, p. 93.

[115]Paci, L’ascesa delle borghesia, pp. 114-115.

[116]Paci, L’ascesa della borghesia, pp. 116-118.

[117]Paci, L’ascesa della borghesia, pp. 130-131.

[118]Paci, L’ascesa della borghesia, p. 116.

[119]Nicoletti, Pergola, pp. 294-295.

[120]Nicoletti, Pergola, pp. 295-296.

[121]Allegretti, Note, p. 97; Nicoletti, Pergola, p. 303.

[122]Allegretti, Piandimeleto, pp. 121-122; G. ALLEGRETTI, Il dopo Medioevo, in G. Allegretti e F.V. Lombardi (a cura di), "Il Montefeltro",vol. II (Ambiente, storia, arte nell'alta Valmarecchia), Villa Verucchio, 1999, pp. 146-216, a pag. 189.

[123]Allegretti, Piandimeleto, pp. 118-119; Allegretti, Il dopo Medioevo, p. 189.

[124]Allegretti, Piandimeleto, p. 118; Allegretti, Il dopo Medioevo, pp. 189-190.

[125]Nicoletti, Pergola, pp. 304 e 308-309. I Napoletani però unirono molti luoghi ai comuni di loro competenza per allargare l'area  a loro soggetta: a Pergola furono sottoposti Monte Gherardo, Tarugo, Monte Scatto, Monte Paganuccio, Mollione, S. Venanzio, Praga, S. Giovanni, Pigno, S. Vito, S. Lorenzo di Fossombrone; a Frontone Acquaviva, Paravento, S. Cristoforo, S. Angelo di Magino), a S. Vito furono sottoposte Cartoceto, Torricella, Caspessa e abbazia di Lastreto.

[126]Nicoletti, Pergola, p. 307.

[127]Nicoletti, Pergola, pp. 310-311.

[128]Nicoletti, Pergola, p. 312.