Capitolo XXIII

 

Restaurazione e società segrete

 

Nel maggio 1814, non ancora terminata la dominazione provvisoria napoletana, vennero reinsediati i rappresentanti governativi in tutto lo Stato della Chiesa e furono ricostituite le magistrature comunali con elementi non compromessi con il precedente regime[1]; fu inoltre nominato il nuovo delegato apostolico[2].

Il recupero vero e proprio della provincia si ebbe dopo la sconfitta del Murat a Tolentino (2-3 maggio), l’occupazione austriaca e le decisioni del congresso di Vienna (9 giugno) di restituire i territori allo Stato della Chiesa[3]: nel luglio veniva riconsegnata la regione al Pontefice.

Dopo che per tre anni, tra 1813 e 1815, la Legazione era stata occupata da truppe straniere (prima napoletane, poi austriache), il segretario di Stato, card. Consalvi (antiliberale e anticostituzionale, ma non reazionario) si accinse a riorganizzare lo Stato, ancora basato su principi feudali e autonomie anacronistiche: una parte delle riforme fatte nel quinquennio 1808-1813 venne pertanto conservato. Ma si opposero alle iniziative del Consalvi sia i cardinali “zelanti” ed i funzionari ad essi legati (numerosi anche nelle Marche), sia i liberali, che presero la strada dell’organizzazione settaria[4].

 

La Riforma dell’amministrazione: il motu proprio 6 luglio 1816.

Il Consalvi, rifiutando il ritorno al particolarismo feudale e comunale, fece approvare una delle leggi più significative del suo segretariato di Stato: il motu proprio 6 luglio 1816.

Esso prevedeva la ristrutturazione territoriale di tutto lo Stato, che fu suddiviso in diciassette delegazioni. “Secondo le norme del motu proprio le delegazioni erano rette da delegati aventi giurisdizione amministrativa e penale, assistiti da due assessori, con funzioni giudiziarie rispettivamente civili e penali, e da una Congregazione governativa  avente voto soltanto consultivo, composta di persone nate nella delegazione od ivi residenti da lungo tempo, e rappresentante gli interessi locali. Le delegazioni erano suddivise in governi di primo ordine o governi distrettuali, retti da governatori nominati con breve pontificio, e di secondo ordine, retti da governatori nominati con lettere patenti della Sacra Consulta”[5].

Le Marche in particolare erano suddivise nelle tre province di Camerino, della Marca, di Urbino. Quest’ultima, di prima classe, corrispondeva alla precedente delegazione di Urbino e Pesaro, era affidata al governo di un cardinale legato, ed era suddivisa ulteriormente nei “governi distrettuali” di Urbino, Pesaro, Fano, Senigallia e Gubbio[6].

Vennero inoltre abolite le giurisdizioni baronali e feudali esistenti, prima dell’arrivo dei Francesi, nel territorio dello Stato della Chiesa[7] e si cercò di rendere uniforme l’amministrazione comunale e di riorganizzarla completamente con l’istituto dell’appodiamento, in base al quale entità amministrative minori erano “appodiate” (unite, “appoggiate”) ad una comunità principale.

Le comunità appodiate perdevano “parte della loro autonomia economica e quasi completamente la loro autonomia amministrativa per dar vita ad aggregazioni più vaste ruotanti attorno alla comunità principale. Non si trattava tuttavia di federazione, né tanto meno di fusione, ma di una vera e propria diminuzione di personalità degli appodiati a favore dei capoluoghi”. Esse erano rette da un sindaco (scelto dal delegato di Pesaro e Urbino tra una terna proposta) che dipendeva dal gonfaloniere della comunità principale[8].

Nella comunità principale venne istituito un consiglio, nominato dal delegato, formato da un certo numero (da 18 a 48) di abitanti del luogo, al capo del quale era il podestà. La magistratura che amministrava la comunità era costituita da un gonfaloniere e dagli anziani (da due a sei a seconda del numero degli abitanti; anch’essi venivano scelti dal delegato su terne proposte dai consiglieri). Ai consigli del comune partecipavano anche i sindaci delle comunità appodiate[9]. Completava la riforma il riparto territoriale, cioè l’elenco delle nuove aggregazioni amministrative locali (comuni e appodiati), che solo in parte ricalcavano precedenti ripartizioni dell’Antico Regime.

Se poteva considerarsi nuovo il rigoroso accentramento, è ben vero che le nomine dall’alto e l’esclusione di ogni elemento laico borghese dall’amministrazione centrale e provinciale impedirono al Consalvi di inserire nella sua politica gli uomini nuovi, che rimasero ai margini dello Stato e furono spinti a  battere le vie della cospirazione e delle sette, caduta la speranza di ottenere legalmente una qualche speranza di parlare e di scrivere, la libertà individuale e l’ascenso agli impieghi e cariche pubbliche”[10].

 

La Riforma dell’amministrazione: l’editto 26 novembre 1817.

Il riparto territoriale presentava, rispetto alla situazione precedente, variazioni motivate e valide ma anche aggregamenti o divisioni sconcertanti, dettati da pressioni campanilistiche, da ignoranza topografica, dal caso[11]. Dato che tale riparto era provvisorio, nel periodo successivo all’uscita delle tabelle fu inoltrata a Roma una valanga di ricorsi da parte di comunità prima indipendenti ed ora appodiate, o di comunità che avevano perso una parte rilevante del proprio territorio, in previsione dell’uscita della tabella definitiva, che fu pubblicata con l’editto 26 novembre 1817: “per le Marche vi sono soltanto piccole modificazioni riguardanti governi, comuni ed appodiati”[12].

Più importanti alcune modifiche riguardanti il territorio stesso della Legazione: tutto il comune di Piandimeleto e gli appodiati di Talamello, Perticara e Sapigno passarono dalla Legazione di Forlì a quella di Pesaro; viceversa passarono sotto Forlì i comuni di Poggio Berni e Monte Gelli[13].

Nel 1821 vennero fatte ulteriori modifiche al riparto presentato: Pietrarubbia e Pietra Cavola furono appodiati a Carpegna; Piobbico, con gli appodiati di Montegrino, Offredi, Orsajola, Pecorari, si staccava da Urbania[14].

 

Il fallimento delle riforme del Consalvi

Il Consalvi cercava un compromesso tra nuovo e antico: è importante la decisione di convalidare, a differenza di quanto era accaduto dopo il “triennio giacobino”, le alienazioni dei beni ecclesiastici avvenute negli anni precedenti: la scelta, motivata da opportunità politica e dalla volontà di impedire una massiccia distruzione di ricchezza, lasciò sopravvivere la nuova borghesia che si era rafforzata in età napoleonica. Tuttavia questa decisione non gli accattivò la simpatia di questa classe sociale: “borghesia e piccola nobiltà, che avevano consolidate notevolmente le proprie posizioni economiche e morali servendo l’amministrazione napoleonica… si vedevano ora radiate da ogni posizione di prestigio”; ostili anche il clero e la nobiltà, “che non erano riusciti ad ottenere tutto quello che avevano sperato dal ritorno del pontefice”[15].

Nell’economia inoltre era instabile il prezzo dei cereali a seguito della concorrenza dei grani esteri, si esauriva l’importanza commerciale della fiera di Senigallia, le barriere sociali erano odiose dopo il ricordo della parità goduta nell’età napoleonica (campo sociale), i traffici erano insicuri, l’economia doveva affrontare il passaggio dal periodo di guerra a quello della pace (riconversione, licenziamenti), ecc.[16]

I primi anni del nuovo regime furono inoltre caratterizzate da una terribile carestia, che dal 1814 si protrasse fino al raccolto del 1818: la serie delle testimonianze dell’estrema povertà e dell’inedia diffusa in ogni luogo della provincia è lunga e impressionante[17]. Nel 1817 si ebbe anche un’epidemia di tifo, mentre centinaia di persone si spostavano da  un luogo all’altro alla ricerca di un minimo di sussistenza[18].

 

La Riforma dell'amministrazione: il motu proprio 21 dicembre 1827

Nel 1824 papa Leone XII intervenne di nuovo nel settore dell'amministrazione periferica, dando tra l’altro, nel motu proprio emanato nell'ottobre di quell'anno, poteri giurisdizionali ai gonfalonieri nelle cause minori[19]. Si prevedeva anche, nello stesso provvedimento, di effettuare una revisione delle circoscrizioni comunali, ma la tabella di riparto fu pubblicato solo tre anni dopo, nel 1827, annessa ad un nuovo motu proprio dello stesso papa, "sull'amministrazione pubblica"[20].

Il nuovo riparto territoriale, ispirandosi a criteri diversi da quelli utilizzati nel 1816 e 1817, tra cui quello di voler restituire figura di comunità alle entità amministrative soppresse che avessero mezzi e requisiti per sostenere la "rappresentanza comunitativa", provocò la nascita di nuovi comuni (spesso a scapito dei centri maggiori); viceversa scomparvero diversi appodiati, troppo deboli, che furono fusi con altri appodiati o con comunità principali[21].

Si cercò di creare anche corpi comunali territorialmente compatti; tuttavia ci furono anche in questa occasione situazioni sconcertanti, irrazionalità, incongruenze e contraddizioni[22].

 

Il movimento settario

Già prima della Restaurazione si erano diffuse anche nella nostra provincia le società segrete, che trovavano proseliti tra gli esponenti delle classi abbienti (nobiltà e borghesia). Possiamo ricordare in primo luogo la "Carboneria", propagatasi dal Regno di Napoli, che aveva come obiettivi l’indipendenza e la libertà (ma talvolta anche la repubblica e l’egualitarismo)[23]; diffusa anche la “Guelfia”, penetrata dalla  Romagna, i cui aderenti aspiravano ad una serie di riforme (libertà di stampa, parità di leggi, monete e misure) e che trovava i suoi adepti tra gli elementi più moderati[24].

Ma le "vendite carboniche"  e i “consigli” esistenti a Pesaro, Fano, Urbania e Senigallia vennero nel 1817 scoperti dall'autorità costituita, alla vigilia dell'inaugurazione di quella di Fano, grazie alla confessione di un inquisito: il processo che ne seguì si concluse con alcune condanne a morte, per fortuna non eseguite[25].

Un altro giro di vite nei confronti delle società segrete si ebbe negli anni 1824-1827, dopo la caduta del Consalvi. Nel 1824 infatti la commissione straordinaria Invernizzi (guidata dal card. Rivarola) ebbe ampi poteri da papa Leone XII contro le sette in Romagna (ma estendeva la sua giurisdizione anche nella Delegazione di Urbino e Pesaro). L'opera di investigazione contro i cospiratori, attuata dalla commissione trasferitasi, nel 1824-1825, nella nostra Delegazione, si concluse in un grande processo tenuto nel 1825-1827:  furono condannati diversi settari della nostra provincia, tra i quali Francesco Perfetti, capo ed animatore della carboneria pesarese, fervente giacobino al tempo della Cisalpina, prefetto di polizia sotto il Regno Italico[26].

Contemporaneamente, sotto il pontificato di Leone XII, fu distrutta l’opera del Consalvi: “furono ripristinate vecchie pratiche e discipline della Curia romana; gli studi interamente assoggettati all’autorità ecclesiastica; confermate ed ampliate le immunità, i privilegi, le giurisdizioni del clero; abolito il magistrato che sovrintendeva alla vaccinazione e vietato l’innesto; proibito alle donne di portar vesti attillate; imposto l’obbligo del precetto pasquale; proibito nei tribunali l’uso della lingua italiana a vantaggio della latina; abolito il diritto di proprietà per gli ebrei, i quali furono ricacciati nei ghetti, e caricati di balzelli, e assoggettati alla vigilanza dell’Inquisizione, onde si videro molti di costoro emigrare in terre più ospitali in Lombardia, in Toscana, nel Veneto; consentito di istituire maggioraschi e fidecommessi”[27].

 

Verso l'insurrezione del 1831

Già da tempo circolavano idee liberali e rivoluzionarie nelle città della Delegazione, per distogliere gli animi dalle quali il delegato apostolico, mons. Cattani, promuoveva feste e spettacoli teatrali o, per dar lavoro agli operai, faceva allestire lavori pubblici[28].

I capi del movimento liberale a Pesaro erano il marchese Pietro Petrucci, naturalista e matematico; il conte Domenico Paoli, fisico e geologo; il conte Francesco Cassi, letterato; Carlo Molinari, ufficiale di finanza. Essi si riunivano in due diverse farmacie cittadine[29]. Altri liberali si ritrovavano nell'abitazione del colonnello Gian Clemente Busi, comandante di un plotone di carabinieri, e a casa Mosca. Altri luoghi di riunione erano il caffè di Nunzio, il caffè del Commercio per il Corso, il caffè di Moretti, la farmacia Giommi[30].

Fondamentale, per la preparazione del moto del 1831, l'azione di Terenzio Mamiani, di nobile famiglia pesarese che, muovendosi da Torino, a Roma, a Pesaro, teneva i contatti tra rivoluzionari locali e romagnoli[31]. Era inoltre presente in città, insieme alla sua famiglia, un vecchio ufficiale del Regno d'Italia, il colonnello Giuseppe Sercognani[32].

 

La rivoluzione nella Delegazione

Il 5 febbraio scoppiò la rivolta a Modena, il 6 a Bologna; il 7 i liberali presero il potere a Rimini[33].

La prima città della Delegazione a ribellarsi al regime fu Fossombrone, dove, l'8 febbraio, fu occupato dalla popolazione il salone comunale e instaurata una nuova amministrazione, a capo della quale fu posto il poeta e dantofilo Cante Francesco Maria Torricelli. L'esempio di Fossombrone fu seguito nella stessa giornata da Senigallia[34].

A Pesaro la situazione era in piena evoluzione. "I pochi liberali pesaresi - al corrente di ciò che avveniva in Emilia e Romagna e incalzati da una parte dai romagnoli, dall'altro lato da Fossombrone e Senigallia - esitavano, perché sapevano che la maggior parte della cittadinanza era contraria e quindi non potevano sperare da essa appoggio alcuno. Grande intanto era l'apprensione del Delegato Apostolico, mons. Cattani, che il 7 febbraio adunò presso di sé i notabili della città, ordinò una guardia civica per la pubblica quiete e ne nominò comandante il Sercognani"[35].

Il 9 tuttavia anche Pesaro era in mano ai rivoltosi: il marchese Petrucci e gli uomini di Casteldimezzo, Fiorenzuola e Cattolica riuscirono ad entrare, nella prima mattinata, grazie alla connivenza del colonnello Busi e del capitano Paganelli, in città e, insieme ai rivoluzionari pesaresi, occuparono il palazzo del Delegato Apostolico mentre il colonnello Sercognani con pochi uomini occupava il forte dei Pesaro senza bisogno di combattimento[36]. Mons. Cattani, affidato il governo provvisorio ad un comitato di cittadini, si allontanava precipitosamente dalla città[37]. Mamiani arrivò il 10 a Pesaro: fu nominato membro aggiunto del comitato provvisorio e inviato il 13 a Bologna per dichiarare a quel comitato l'adesione della provincia di Pesaro all'atto di unione[38].

"La rivoluzione si diffuse a poco a poco in tutti i paesi della Provincia, che inviarono al Comitato provvisorio di Pesaro la loro adesione e i loro deputati, attendendo da esso i nuovi ordini"[39]. A Fano, alla notizia della rivoluzione di Pesaro, nella stessa mattinata, il popolo invase la Sala del Consiglio e formò una nuova amministrazione[40], mentre si facevano discorsi poco nazionali e molto municipalistici[41].

Anche Urbino, nel pomeriggio del 9, era passata pacificamente in mano ai liberali[42]; il 10 fu la volta di Urbania, seguita dai centri del Montefeltro[43]; l'11 aderì al governo rivoluzionario anche la guarnigione di S. Leo, presso la quale il Comitato Provinciale aveva mandato un ex comandante della piazzaforte, il capitano Angelo Stelluti[44].

Nella fascia meridionale della provincia il principale centro d'irradiamento della rivolta fu Fossombrone, insorta già l'8: il 12 febbraio instaurarono un nuovo governo Cagli e Cantiano; il 14 Pergola; il 15 Mondolfo[45].

 

L’azione del nuovo governo

A Pesaro, presso la sede del "Comitato Provinciale Provvisorio di Governo", si recarono i rappresentanti dei vari governi della ex delegazione, alcuni dei quali (come gli Urbinati, che pretendevano che la loro città fosse capoluogo della provincia) malvolentieri e con istruzione particolari relative ad obiettivi difficilmente raggiungibili: anche per questo le prime riunioni riuscirono poco concludenti[46].

Il Comitato, nelle poche settimane di vita (cessò dalle sue funzioni il 18 marzo, all'arrivo nella Provincia del conte Pepoli, nominato Prefetto dal governo di Bologna), pur essendo espressione dei moderati, prese diversi provvedimenti: fu eliminato il dazio sul macinato; fu imposta la consegna delle armi; venne istituita una Guardia Nazionale (a capo della quale fu posto il colonnello Sercognani), in cui erano obbligati a prestare servizio tutti i cittadini dai 18 ai 50 anni; furono emanate norme restrittive riguardanti la libertà di stampa; furono aboliti l'uso della lingua latina nei Tribunali e la giurisdizione ecclesiastica; furono obbligati i giudici di motivare la sentenza[47]. Fu anche istituito un tribunale ad Urbino e diminuito il prezzo del sale[48].

All'assemblea del nuovo governo, che ebbe sede a Bologna, venne inviato, per la provincia di Pesaro, il conte Terenzio Mamiani, che ebbe l'incarico di ministro dell'interno; fu nominato come rettore della nostra provincia il conte Carlo Pepoli[49].

 

L'insofferenza degli Urbinati

L’aspetto municipalistico, già evidenziato all'indomani dell'insurrezione, e di cui si hanno diversi esempi nei 41 giorni della Rivoluzione[50], ebbe il suo momento culminante  nelle giornate successive al 7 marzo, quando, in seguito alla conoscenza dell'approvazione dello Statuto Costituzionale (che confermava il riparto provinciale precedente e nominava l'ex delegazione d'Urbino e Pesaro "Provincia di Pesaro e Urbino), ci furono tumulti popolari ad Urbino: il Comitato cittadino inviò quindi “ambasciatori” nelle città vicine per proporre la creazione di una provincia urbinate, ma non ottenne risultati. Inconcludente anche l’azione intrapresa a Bologna, dove fu inviato un memoriale[51].

 

Controrivoluzione nel Montefeltro

Ben più grave l'insurrezione legittimista che scoppiò, intorno alla metà di marzo, nel Montefeltro: la rivolta, incoraggiata dal basso clero, ebbe un carattere anarcoide e fu subito soffocata da contingenti militari inviati dalle città vicine.

La situazione precipitò l'11 marzo, quando sollevati di Montetiffi assalirono una colonna di militi riminesi che avevano prelevato polvere da sparo a Mercatino di Talamello (Novafeltria) e a Secchiano senza pagare in contanti[52].

Il giorno successivo Pennabilli e l'intera vallata del Marecchia erano in armi e dovunque venivano abbassati tricolori e simboli del nuovo regime; i sollevati cercarono anche di prendere il forte di S. Leo (che assediarono nei giorni 13 e14)[53].

Per soffocare la rivolta si mobilitarono carabinieri e guardie nazionali di Urbino, Urbania, Pesaro, Rimini e Senigallia (complessivamente qualche centinaia di uomini) che, il 14 marzo, muovevano alla volta della regione ribelle: i sollevati vennero dispersi a Santa Maria Valcava (presso Montecerignone) e i paesi del Montefeltro, dal 14 al 17, furono tutti occupati dai "Nazionali" che ristabilirono, ovunque, l'ordine[54].

 

La fine della rivolta

Ma il "Governo delle Province Unite" era in quei giorni attaccato dalle truppe austriache guidate dal gen. Frimont che, dopo aver occupato i ducati padani (Parma e Modena), entrarono, su richiesta del Papa, nello Stato della Chiesa occupando Bologna (21 marzo)[55]. Il 25 marzo gli austriaci erano a Rimini, il 26 il prefetto Pepoli e le autorità provinciali lasciavano Pesaro e, il giorno successivo, gli austriaci entravano in città[56]. Subito il commissario pontificio, cav. Flaminio Barattelli, nominò un delegato provvisorio ed una nuova magistratura comunale. Erano naturalmente dichiarate decadute le amministrazioni rivoluzionarie degli altri centri della provincia.

Il 5 aprile 1831 mons. Cattani tornò al governo della Legazione: furono emanati alcuni editti che prescrivevano il rimpatrio o il controllo strettissimo dei forestieri, la regolamentazione dei locali pubblici, il "coprifuoco" nelle città[57]. Il Papa intanto, su richiesta delle potenze europee (10 maggio 1831), concesse un'amnistia quasi generale. Non si vollero piegare sottoscrivendo una dichiarazione di fedeltà per l'avvenire alcuni patrioti (tra cui il pesarese Terenzio Mamiani), che furono mandati in esilio[58].

 

Gli anni Trenta

Il 4 agosto 1832  il segretario di Stato, cardinal Bernetti, notificava al Delegato di Urbino-Pesaro, card. Albani, la decisione di dividere la nostra delegazione, di nuovo promossa a rango legatizio, in due parti "distinte ed eguali in onorificenza e privilegi tra loro": quella marittima avrebbe avuto come capoluogo Pesaro, quella montana Urbino. Nella prima avrebbe avuto sede il governo del legato nel periodo maggio-ottobre; la seconda lo avrebbe ospitato nei restanti mesi dell'anno. Ognuna delle due città avrebbe offerto stabile residenza ad un luogotenente ed avrebbe avuto la sua congregazione governativa (quattro consiglieri per l'esame di atti e deliberazioni dei comuni che ricadevano nell'area di propria pertinenza)[59].



[1]G. ALLEGRETTI, Mutazioni circoscrizionali nei comuni di Montefeltro e Massa (1814-1833), in "Studi Montefeltrani", 4, 1976, pp. 5-43, a pag. 11.

[2]D. CECCHI, Dagli Stati signorili all'età postunitaria: le giurisdizioni amministrative in età moderna, in S. Anselmi (a cura di), "Economia e Società: le Marche tra XV e XX secolo", Bologna 1978, a pag. 81.

[3]Cecchi, Dagli Stati signorili, p. 81.

[4]A. BERSELLI, La Restaurazione e le Società segrete nelle Marche, in AAVV, "L'apporto delle marche al Risorgimento nazionale", Ancona 1961, pp. 67-106, alle pagg. 72-74.

[5]Cecchi, Dagli Stati signorili, p. 83.

[6]Cecchi, Dagli Stati signorili, p. 82. Rispetto alla situazione preesistente venivano soppressi i commissari di Montefeltro e Massa Trabaria (antiche province ducali che perdevano definitivamente personalità giuridica) (Allegretti, Mutazioni, p. 7).

[7]Si trascinò per qualche anno la questione riguardante Carpegna, che per il conte Gaspare (che aveva riunito sotto il suo governo anche il principato di Scavolino) non era feudo ma dominio originario, libero e franco. Dopo qualche anno, nel 1819, egli fu però costretto a fare atto di sottomissione e il piccolo Stato fu annesso (F.V. LOMBARDI, La contea di Carpegna, Urbania 1977, pp. 137-138; Allegretti, Mutazioni, p. 22).

[8]Allegretti, Mutazioni, pp. 15-16: "Gli appodiati generalmente non avevano a che dolersi della nuova situazione. L'autonomia amministrativa di cui precedentemente avevano goduto era già di fatto vanificata dallo spopolamento di quei centri, dall'ignoranza e dalla povertà dei loro abitanti. Inoltre, mentre la figura del 'sindaco' serviva ad appagare gli orgogli paesani, la separazione patrimoniale e fiscale rassicurava sulal tutela economica delle comunità appodiate. Infine le riforme del periodo francese avevano reso familiare l'idea della necessità di aggregazioni e concentrazioni".

[9]Cecchi, Dagli Stati signorili, p. 83.

[10]R. PACI, L’ascesa della borghesia nella Legazione di Urbino dalle riforme alla Restaurazione, Milano 1966, p. 141.

[11]Allegretti, Mutazioni, p. 20: "Riteniamo preminente e decisiva la incapacità dell'amministrazione pontificia di organizzare razionalmente il territorio; riteniamo che all'attuazione di un ordinamento territoriale efficiente e al tempo stesso rispettoso delle realtà locali, storiche e geografiche, concorressero allora tutte le condizioni meno la forza politica, che quel regime più non aveva o più non sentiva di avere; e che questo sentimento di debolezza politica determinasse la necessità di correre incontro a ogni mugugno campanilistico, a ogni clangore protestatario. Sospettiamo inoltre, pur non avendo finora su ciò documenti probanti e diretti, che determinanti nel decidere il preteso riordinamento territoriale furono le mene degli 'agenti delle comunità', personaggi diò sottobosco della burocrazia romana ma non di rado bene introdotti".

[12]Chittolini, Su alcuni aspetti, p. 82.

[13]G. ALLEGRETTI, Piandimeleto, Ostra Vetere 1987, p. 129; Allegretti, Mutazioni, p. 17.

[14]Allegretti, Mutazioni, p. 22.

[15]Paci, L’ascesa della borghesia, p. 142.

[16]Paci, L’ascesa della borghesia, p. 144.

[17]Paci, L’ascesa della borghesia, p. 144 ss.

[18]Paci, L’ascesa delle borghesia, pp. 146-147.

[19]Allegretti, Mutazioni, p. 23.

[20]Allegretti, Mutazioni, p. 23. Il motu proprio prevedeva un amplimamento dei poteri dei sindaci;

la creazione della figura di due consiglieri, che collaboravano con il sindaco nell'amministrazione dell'appodiato; il cambiamento del nome del gonfaloniere (chiamato "priore comunale) e degli anziani (chiamati "aggiunti"). Priore, aggiunti e sindaci erano confermati dal governo su terne proposte dalle comunità locali.

[21]Allegretti, Mutazioni, p. 24.

[22]Allegretti, Mutazioni, pp. 24-25.

[23]A. BERSELLI A, La Restaurazione e le Società segrete nelle Marche, in AAVV, "L'apporto delle Marche al Risorgimento nazionale", Ancona 1961, pp. 67-106, alle pagg 78-79.

[24]Berselli, La Restaurazione, p. 81.

[25]AAVV, "L'apporto delle Marche al Risorgimento Nazionale", Ancona 1961, p. 121. Lo scompagimento della struttura settaria fu una delle cause dell'assenza di insurrezioni nella regione nel biennio 1820-21 (moti nel Regno delle Due Sicilie e nel Regno di Sardegna).

[26]Berselli, La Restaurazione, p. 92; D. SPADONI, Fisionomia del moto del '31 nelle Marche, in AAVV, "Le Marche nella rivoluzione del 1831", Macerata 1935, pp. 1-26, a pag. 2 ("In quella procedura erano risultate più o meno gravemente indiziate come pertinenti alla Carboneria anche non poche persone delle più ragguardevoli famiglie pesaresi, che però, per vari riguardi, non erano state colpite"); M. PETRINI, La rivoluzione a Pesaro, in AAVV, "Le Marche nella rivoluzione del 1831", Macerata 1935, pp. 27-48, alle pagg. 28 e 41.

[27]C. SPELLANZON, Storia del Risorgimento e dell’Unità d’Italia, Milano 1933,  vol . II, pp. 87-84.

[28]Petrini, La rivoluzione a Pesaro, p. 28.

[29]Petrini, La rivoluzione a Pesaro, p. 29: "Il Petrucci aveva dimorato per qualche tempo a Bologna. Ritornato a Pesaro, cercò di propagare  le teorie liberali attinte in quella città e trovò il fervore dei suoi amici. Vari furono i loro luoghi di riunione; di giorno si riunivano nella farmacia diretta da certo Donzelli o in quella del Petrucci in Via della Posta Vecchia 13 (odierna Via Mazza)".

[30]Petrini, La rivoluzione a Pesaro, pp. 29-30.

[31]Petrini, La rivoluzione a Pesaro, p. 31.

[32]Petrini, La rivoluzione a Pesaro, p. 29.

[33]Petrini, La rivoluzione a Pesaro, p. 32; E. LIBURDI, La rivoluzione in Urbino e nell'Urbinate, in AAVV, "Le Marche nella Rivoluzione del 1831", Macerata 1935, pp. 49-90, a pag. 50.

[34]Liburdi, La rivoluzione in Urbino p. 53.

[35]Petrini, La rivoluzione a Pesaro, p. 33.

[36]Petrini, La rivoluzione a Pesaro, p. 34.

[37]Petrini, La rivoluzione a Pesaro, pp. 33-34: "Concedo alle circostanze, al desiderio unanime della Provincia di Pesaro - Urbino e ad impedire  gravi disordini restano affidate le redini del governo a un Comitato composto de' sigg. Francesco Cassi gonfaloniere, m.se Pietro Petrucci, conte Domenico Paoli, cone Giuseppe Mamiani ed avv. Paolo Barilari. Mentre detto Comitato annuncierà  quanto prima la forma di governo che va ad istituirsi, io ne prevengo il pubblico per quiete di tutti e per garanzia dei cittadini".

[38]Petrini, La rivoluzione a Pesaro, p. 32.

[39]Petrini, La rivoluzione a Pesaro, p. 36.

[40]A. MABELLINI, La rivoluzione a Fano, in AAVV, "Le Marche nella rivoluzione del 1831", Macerata 1935, pp. 91-102, alle pagg. 91-93. Fu nominato presidente del comitato di governo il conte Cristoforo Ferri. Gli altri membri furono l'avv. Pacifico Gabrielli, Ignazio Mattioli, Paolo Fabbri, il conte Andrea Gabrielli, Francesco Gaudenzi, Filippo Luigi Polidori. Fu poi confermato un noto patriota, Lancellotti, a comandante della guardia, carica che aveva ottenuto il giorno precedente, non chiamata più Urbana, ma Nazionale (ivi, p. 93).

[41]Mabellini, La rivoluzione a Fano, pp. 93-94. "Seguì un lungo e caldo discorso dell'avv. Pacifico Gabrielli, il cui scopo era di dimostrare l'utilità e l'opportunità di sottrarsi alla soggezione della vicina Pesaro, ed invitava tutti i cittadini ad essere uniti per giungere a tale emancipazione, ricordando le sofferenze sempre subite per tale dipendenza. Il popolo ad alte grida approvava questi discorsi e nell'entusiasmo del momento si distribuivano coccarde tricolori, che si vedevano ormai su tutti i cappelli. Alcuni però dissentivano da tale proposta, mettendo innanzi il timore che potesse racchiudere i germi pericolosi di una civile discordia, fonte di gravi disavventure per la nobile causa comune: ne sorsero vivaci discussioni e si stabilì infine di spedire Deputati con credenziali alle diverse città della provincia (Senigallia, Urbino, Cagli) per conoscere come la pensassero in proposito e prender con loro comuni accordi. Ma le risposte risultarono per la più parte o dubbie o dilatorie"

[42]Liburdi, La rivoluzione in Urbino p. 51: "Erano presenti, nella giornata del 9, a Pesaro, anche tre patrioti urbinati, tra cui il prof. Gabriele Rossi, e il chirurgo fossombronate Federico Falcucci. E mentre in Pesaro cominciavasi a vedersi le coccarde tricolori, ed il Comitto provvisorio di governo emanava i primi decreti atti ad accaparrarsi le simpatie e l'appoggio del ceto popolano, i  tre urbinati (Gabriele Rossi, Antonio Fantoni, Felice Giammartini) tornavano speditamente in Urbino, portando i primi manifesti rivoluzionari, ed in ispecie la rinunzia di mons. Cattani, legalizzante, in certo qual modo, le desidearate innovazioni. Forti di questi documenti i tre si portarono dalla civica Magistratura e non riuscì loro difficile ottenerne l'adesione. Si pubblicarono quindi i manifesti del Comitato Pesarese, ordinando, per la serata stessa, la generale illuminazione della città... I carabinieri pontificii aderirono al nuovo governo, esempio seguito anche dal locale Luogotenente (governatore) D.r Gaetano Muzi di Monte Grimano. Il Comitato Provvisorio di Governo urbinate risultò composto dal Gonfaloniere m.se Raimondo Antaldi nonchè dal dott. Luigi Ligi, Felice Giammartini, Antonio Lazzari, Carlo Pasqualin"

[43]Liburdi, La rivoluzione in Urbino pp. 51-52 e 70-71 (ma nel Montefeltro ci furono alcuni piccoli ma preoccupanti segnali di insofferenza per il nuovo governo).

[44]Liburdi, La rivoluzione in Urbino, pp. 53-54.

[45]Liburdi, La rivoluzione in Urbino, p. 53. Il presidio pontificio di Ancona si arrese il 17 febbraio: tutte le Marche erano in mano agli insorti, guidati dal colonnello Sercognani (i cui soldati sono il 16 ad Osimo, il 17 a Macerata, il 21 a Fermo, il 23 ad Ascoli, da dove marcia alla volta di Foligno) (Spadoni, Fisionomia del moto, pp. 4-7; Petrini, La rivoluzione a Pesaro, p. 37).

[46]Petrini, La rivoluzione a Pesaro, p. 16; Liburdi, La rivoluzione in Urbino, p. 62.

[47]Petrini, La rivoluzione a Pesaro, pp. 35 e 45-46.

[48]Petrini, La rivoluzione a Pesaro, pp. 35 ed 46.

[49]Petrini, La rivoluzione a Pesaro, pp. 37-38.

[50]Liburdi, La rivoluzione in Urbino, p. 72.

[51]Liburdi, La rivoluzione in Urbino, p. 65. Il memoriale è ivi pubblicato, pp. 88-89.

[52]Liburdi, La rivoluzione in Urbino, p. 75.

[53]Liburdi, La rivoluzione in Urbino, pp. 76 e 81.

[54]Liburdi, La rivoluzione in Urbino, pp. 77-78.

[55]Liburdi, La rivoluzione in Urbino, p. 83.

[56]Liburdi, La rivoluzione in Urbino, p. 83; Petrini, La rivoluzione a Pesaro, pp. 38-39 (Le truppe austriache mostrarono "verso i cittadini massima calma e grande moderazione; subito in ogni luogo pubblico furono rialzate le insegne papali, e nelle sera la città fu illuminata in segno di festa").

[57]Petrini, La Rivoluzione a Pesaro, p.40.

[58]Petrini, La Rivoluzione a Pesaro, p.40.

[59]Cecchi, Dagli Stati signorili, a pag. 84.