Capitolo IV

 

L’età tardo-antica

 

La crisi del III secolo.

L'Impero Romano dovette affrontare nel III secolo d.C. una grave crisi che investì i campi politico, economico, sociale, demografico e militare. A livello locale questo periodo è contrassegnato dal collasso dell’apparato amministrativo (si moltiplicano le attestazioni di curatores, nominati dall'autorità centrale: sostituirono le classi dirigenti locali, che ormai consideravano l'impegno nel proprio municipio come un inutile peso, anche fiscale, e cercavano di evitarlo in ogni maniera) dalla crisi economica (aumento delle imposte, inflazione, contrazione dei commerci...), dal calo demografico, con gravi conseguenze sia per i centri cittadini, che videro la fuga o la contrazione della popolazione, sia per le aree rurali, in cui si ridusse la densità demografica e si diffuse il brigantaggio. Nel 246 d.C. è ricordata da un'epigrafe la presenza di venti soldati della flotta ravennate, guidati da Aurelio Munaziano, nella gola del Furlo per garantire sicurezza in zone favorevoli ad azioni di brigantaggio[1].

Un’altra iscrizione del III secolo ricorda un certo Tito Aurelio Flaviano, centurione della legio IV Flavia, comandante di un  distaccamento militare a cui probabilmente era stato affidato il compito di  reprimere il brigantaggio nell’Umbria, nel Piceno e nell’Apulia. Sede del comando del distaccamento sarà stata probabilmente Pesaro, dove il centurione morì e dove è stata rinvenuta l’epigrafe[2].

 

Aureliano sconfigge gli Iutungi a Fano (271)

Non dobbiamo poi dimenticare che in questo periodo, nella nostra zona, giunse la prima delle invasioni dei "Barbari" (gli Iutungi, di ceppo germanico per alcuni autori, scitico per altri) che, più di un secolo prima delle grandi migrazioni di popoli del sec. V, scesero in Italia negli anni 270-271.

Avuto notizia della loro presenza in Lombardia, l'imperatore Aureliano, che si trovava oltre le Alpi, a Sirmium, scese per affrontarli ma, colto di sorpresa nei pressi di Piacenza, fu costretto ad abbandonare il campo di battaglia. Gli Iutungi si diressero allora verso sud percorrendo le vie Emilia e Flaminia. Ma lungo quest'ultima strada Aureliano aveva radunato le sue truppe, con l'intenzione di sbarrare loro la strada: attaccata battaglia, li sconfisse, nel febbraio 271, iuxta amnem Metaurum ac Fanum Fortunae. I barbari si ritirarono verso il nord; Aureliano li raggiunse e ne massacrò una parte presso il fiume Ticino; i superstiti furono raggiunti e di nuovo sconfitti presso il  Danubio[3].

In quella circostanza fu restaurata a Pesaro la cinta muraria, da molto tempo lasciata nell'abbandono. Analogo intervento fu effettuato a Rimini, Fano e, forse, a Senigallia[4].

 

La Flaminia et Picenum.

L'amministrazione dell'Italia doveva comunque essere riorganizzata e questo processo, avviato dallo stesso Aureliano, fu attuato intorno al 297 da Diocleziano, che adeguò amministrativamente il territorio della Penisola a quello delle province: la Diocesi Italiciana comprendeva infatti tutta l'Italia ed era divisa in dodici-tredici regioni, rette ciascuna da un governatore: tra esse la Flaminia et Picenum, che comprendeva parte delle regioni augustee V (Picenum), VI (Umbria), VIII (Aemilia)[5].

Tra la fine del IV secolo e i primi anni del V, la provincia fu però smembrata e il suo territorio ripartito in due circoscrizioni: a nord dell'Esino, fin oltre Ravenna, la Flaminia et Picenum annonarium (che provvedeva ai rifornimenti della residenza imperiale a Milano); a sud dell'Esino il Picenum suburbicanum[6].

Continuava nel frattempo l’ingerenza dell’amminstrazione centrale in quella municipale: un’epigrafe ricorda un funzionario (il cui nomen era Flavio) preposto alle due città di Pesaro e Fano al tempo degli imperatori Graziano e Valentiniano (378-379 d.C.)[7].

 

I primi saccheggi: i Visigoti di Alarico

Dall'ottobre 408, e per un paio d'anni, la Flaminia fu ripetutamente percorsa dall'esercito visigoto che, sotto la guida di Alarico, avrebbe saccheggiato Roma nel 410.

Il primo passaggio avvenne dopo la morte di Stilicone: i Goti, che erano scesi attraverso la via Postumia in Italia, passato il Po presso Cremona, percorsa l'Emilia e la Flaminia, si diressero ad Ancona; quindi, costeggiato l'Adriatico, raggiunsero la Salaria, che percorsero diretti nel Lazio, dove si fermarono[8].

L'anno successivo Alarico, dopo aver sconfitto truppe scelte dalmate inviate contro di lui, si ripresentò a Rimini chiedendo ad Onorio  le province di Norico, Dalmazia e Venezia, nonché rifornimenti di grano, donativi e la nomina a magister militum. Poiché la situazione degli approvvigionamenti goti era drammatica, Alarico fece poco dopo nuove proposte a Ravenna (il Norico e approvvigionamenti di grano). Non avendo ottenuto niente dal governo imperiale (che aveva interpretato la riduzione delle richieste come un segnale di debolezza), ritornò verso Roma (dove si accordò, nel novembre-dicembre di quell'anno con il Senato, che nominò un imperatore a lui gradito)[9].

Nella prima metà del 410 i Visigoti si presentarono ancora nella pianura emiliana, ponendo il campo presso Rimini. Nello stesso periodo Ataulfo, cognato di Alarico, allontanava dal Piceno il goto Saro, che prestava servizio alle dipendenze del potere imperiale[10]. Infine Alarico, fallita ogni trattativa con l'imperatore, si diresse verso Roma, dove  entrò il 24 agosto 410.

Dai continui passaggi dei Germani furono danneggiate le città situate lungo la Flaminia e, in generale, tutte quelle della nostra provincia[11]. E' inutile sottolineare che, per la scarsità di testimonianze scritte o archeologiche, è impossibile conoscere l'entità delle distruzioni, presumibilmente rilevanti: si pone in questi anni la fine di molte città della nostra provincia. Infatti, tra la fine del IV e il VI secolo, scomparve la maggior parte delle città dell'Umbria Adriatica, che erano città di fondovalle: Pitinum Pisaurense, Sestinum,  Pitinum Mergens, Tifernum Metaurense, Suasa, Sentinum, Ostra. I soli centri che continuano ad esistere, con dignità di città, furono quelli costieri (Pesaro, Fano, Senigallia) e quelli d'altura ben muniti (Urbino; Fossombrone, ma non nel luogo dell'antica Forum Semproni).

Il fenomeno, come si vede, non è circoscrivile ad un periodo delimitato: i centri urbani situati in pianura, lungo le vie di comunicazione attraversate dagli eserciti (dal cui passaggio derivavano uccisioni, saccheggi, epidemie, ecc.), erano insicuri; i loro abitanti si rifugiarono  pertanto in luoghi vicini ben muniti o sulle alture circostanti.

 

Dal 476 al 535

La Vita S. Severini dell'abate Eugippio ricorda che nel 488 un gruppo di Rugi, deportati in Italia meridionale, si fermò nel castello di Monte Feltro, portando con loro il corpo di S. Severino[12]: è la prima attestazione dell'esistenza del centro, destinato, nel VII secolo, a diventare la sede vescovile del Montefeltro.

Non abbiamo invece notizie particolari del periodo di Teodorico, ma ci dovettero essere stanziamenti di Goti nella provincia: ne sono indizi il toponimo di Castrum Glocii (nei pressi di Macerata Feltria)[13], notizie (non si sa quanto affidabili) su martiri cristiani del periodo[14], rinvenimenti archeologici[15], l'andamento delle operazioni belliche al tempo della guerra del 535-553.

 

La guerra greco-gotica (535-553)

La nostra provincia fu invece uno dei teatri principali della guerra greco-gotica: essa era infatti attraversata dalla Flaminia e dalle altre strade che permettevano il passaggio tra le città di Roma e Ravenna, il cui possesso era ambito dagli eserciti in lotta.

Non menzionando i semplici passaggi degli eserciti, anch'essi portatori di lutti e devastazioni (requisizioni, saccheggi, uccisioni gratuite erano effettuate sia dai "barbari" Goti, sia dai Bizantini, il cui esercito era formato in gran parte da mercenari germanici, spesso più rozzi e sanguinari dei loro avversari), i primi scontri diretti nel territorio nella nostra provincia avvennero nel 538[16].

 

La guerra nel 538.

Per alleggerire la pressione su Roma, stretta dall'assedio dei Goti, nei primi mesi del 538 Belisario inviò duemila cavalieri, guidati da un certo Giovanni, verso il Piceno, per attaccare gli insediamenti goti della regione. Evitate Osimo e Urbino, in cui si erano chiusi i Goti, gli attaccanti saccheggiarono la regione e si fermarono a Rimini, pericolosamente vicino alla capitale Ravenna[17].

Vitige fu così costretto a lasciare l'assedio di Roma e, all'inizio del marzo 538, si mosse alla volta della città adriatica. Per ostacolare, alle sue spalle, il probabile inseguimento delle truppe bizantine, lasciò truppe a Chiusi, Orvieto, Todi e, nella "regione dei Piceni", a Petra (quattrocento uomini, “che già in precedenza erano vissuti in quel luogo”), Osimo (quattromila uomini), Urbino (“duemila uomini con a capo Moras”) e S. Leo (“non meno di cinquecento uomini”)[18]. Diede alle fiamme inoltre le città di Pesaro e Fano e, affinché i Bizantini non se ne potessero servire, ne fece abbattere le mura e le porte urbane[19].

Ma, mentre i Goti marciavano verso Rimini, i Bizantini non stavano con le mani in mano e un altro corpo di mille uomini, guidato da Martino e Ildigero, si dirigeva nella città romagnola per portare aiuto a Giovanni. Sulla Flaminia trovarono sbarrato il passo al Furlo, nella cui gola, nei pressi della galleria di Vespasiano, era stato realizzato un fortino apparentemente imprendibile[20]. Riuscirono tuttavia a passare, e a conquistare la posizione, grazie ad un espediente: si arrampicarono sui contrafforti del soprastante monte Pietralata e cominciarono a bombardare con massi il fortino dall'alto. I difensori furono così costretti ad arrendersi[21].

I Goti decisero nell'estate di ritirarsi dall'assedio di Rimini e si chiusero a Ravenna: Belisario era partito da Roma (21 giugno 538) e si dirigeva verso il nord; nel Piceno (probabilmente a Fermo) era sbarcato un altro esercito bizantino, guidato da Narsete, forte di settemila uomini. La guerra si sarebbe presto conclusa (era schiacciante la superiorità numerica dei Bizantini) se i due generali avessero unito le loro forze ma, per contrasti tra loro insorti, ciò non avvenne e, mentre erano assaliti obiettivi di secondaria importanza, le principali roccaforti dei Goti non furono attaccate[22]. Durante tali operazioni Belisario riuscì ad ottenere la resa (per mancanza d’acqua), “intorno al solstizio d’inverno”, di Urbino[23].

Procopio ricorda la morte per fame, nel biennio 538-539, di migliaia di persone di Piceno ed Emilia[24].

 

La riconquista gota del 542.

Nella primavera del 539 Narsete fu richiamato a Costantinopoli e Belisario espugnò, dopo lungo assedio (sette mesi), la fortezza di Osimo, tenuta da quattromila goti e assalita da undicimila bizantini[25]. Fu la volta quindi di Ravenna, assediata dall'autunno 539 al maggio 540[26]. Con la sua resa sembrava conclusa la guerra, ma gli Ostrogoti si riorganizzarono e, sotto la guida di Totila (542), rioccuparono gran parte d'Italia, mentre i Bizantini si ritiravano in alcuni centri fortiticati. Nella nostra provincia sono ricordati, tra le conquiste gote di quell’anno e del successivo, i principali centri fortificati dell'interno: Urbino, Montefeltro e Petra Pertusa[27].

 

I Bizantini a Pesaro (545).

Negli anni successivi Belisario, costretto a difender quel che poteva con forze inadeguate, rioccupò Pesaro, incendiata e danneggiata, insieme alla vicina Fano, da  Vitige nel 538. Il luogo gli sembrava particolarmente adatto "al pascolo dei cavalli" e pertanto nel 545, con un espediente (fece misurare le porte della città; fece fondere battenti appropriati; le fece portare con una nave e, prima che i Goti potessero accorgersi di quanto succedeva, fece fortificare la città, ordinando la ricostruzione tumultuaria delle mura), riuscì a rioccuparla[28].

 

Verso la vittoria dei Bizantini.

La guerra infuriava nel resto della Penisola e anche sui mari (i Goti avevano allestito una flotta e occupavano o saccheggiavano i possedimenti bizantini nelle isole del Mediterraneo e nella penisola balcanica) ma non ci furono avvenimenti bellici di rilievo nella nostra provincia; solo nel maggio 550 fu presa dai Goti Rimini (tenuta fino allora dai Bizantini)[29]; nell'estate 551 al largo di Senigallia le navi bizantine, provenienti da Ravenna e Salona, sconfissero i Goti che assediavano Ancona[30].

Ma la guerra volgeva alla fine. Nel 551 Giustiniano affidò la guerra in Italia a Narsete, assegnandogli forze imponenti: egli nel giugno 552 era a Ravenna e, nello stesso mese, partì alla volta di Roma. Lo scontro decisivo avvenne nell'agosto a Tagina (Gualdo Tadino): i Goti furono disfatti e Totila ucciso.

Le difficoltà non erano finite: un nuovo re dei Goti, Teia, fu sconfitto e ucciso nel Salernitano nell'anno successivo; focolai di resistenza restarono qua e là per oltre un decennio; bande armate di barbari franchi e alemanni scendevano dalle Alpi. Tuttavia il peggio sembrava passato e il dominio bizantino dell'Italia non sembrava essere messo da alcuno in discussione.

Un anno dopo la battaglia di Tagina, nell'autunno del 553, "i Romani avendo cinto d’assedio Porto la conquistarono perché si arrese, e anche una fortezza in Toscana, che chiamano Nepi, così come il luogo fortificato noto con il nome di Petra Pertusa"[31]: la guerra in questo modo si chiudeva anche nella nostra provincia.



[1]Corpus Inscriptionum Latinarum (CIL), vol. XI, n. 6107. ; A. TREVISIOL, Fonti letterarie ed epigrafiche per la storia romana della provincia di Pesaro e Urbino, Roma 1999, pp. 186-188. M. LUNI, Nuovi documenti sulla Flaminia dall'Appennino alla costa adriatica, Urbino 1989, p. 169.

[2] CIL XI, 6446; Trevisiol, Fonti letterarie ed epigrafiche, pp. 70-71.

[3]SCRIPTORES HISTORIAE AUGUSTAE, Aurelianus, XVIII; AURELIO VITTORE, Epitome de Caesaribus, XXXV, 1-2. A. ALFOLDI, Le invasioni delle popolazioni stanziate dal Reno al Mar Nero, in "Cambridge Ancient History " (edizione italiana), vol. XII, 1 (Crisi e ripresa dell'Impero - 193-234 d.C), Milano 1970, pp. 171-197, a pag. 190;  H. MATTINGLY, La ripresa dell'impero, ivi, pp. 345-396, alle pagg. 346-347.  Per la datazione (controversa) della battaglia vds. A. CRESPI, La seconda battaglia del Metauro (febb. 271 d.C.), Trento 1980. E' probabile che le battaglie nella nostra zona siano state due: una presso il Metauro, un'altra a Fano: vds. Mattingly, La ripresa, nota 7 p. 436.

[4]Il funzionario preposto al restauro delle mura di Pisarum e Fanum Fortunae, negli anni 270-271, fu C. Iulius Priscianus, è ricordato in CIL XI, 6308 e 6309. M. LUNI, La città di Pisaurum in età tardoantica, in AAVV, "Pesaro tra Medioevo e Rinascimento", Venezia 1989, pp. 55-77, a pag. 55; M. LUNI, La cinta muraria di Fanum Fortunae, in AAVV, "Fano Romana", Fano 1992, pp. 89-152, a pag. 133.

[5]Luni, La città di Pisaurum, p. 55. N. ALFIERI, Le Marche e la fine del mondo antico, in "Atti e Memorie di Storia Patria per le Marche", n. 86 (1981), pp. 9-34, a pag. 12: "Dal sistematico esame delle fonti soprattutto epigrafiche, gli studiosi hanno ricostruito una lista di quindici-sedici governatori: correctores e consulares. Alla prima metà del sec. IV appartengono dieci correctores, dei quali il primo a noi noto e probabilmente anche il secondo appartenevano all'ordine equestre. Per gli altri invece la titolatura di viri clarissimi indica il rango senatorio. Nella seconda metà del secolo i governatori sono designati con il titolo di consulares".

[6]Alfieri, Le Marche, p. 13; Luni, La città di Pisaurum, p. 55.

[7]CIL, XI, 6328.

[8]H. WOLFRAM, Storia dei Goti, Roma 1985, p. 269

[9]Wolfram, Goti, pp. 272-274.

[10]Wolfram, Goti, pp. 274-275.

[11] Vds. JORDANES, Storia dei Goti, XXX: ... ejusque (scil. della Liguria) praedis spoliiisque potiti, Aemyliam pari tenore devastant, Flaminiaeque aggerem inter Picenum et Thusciam, usque ad urbem Romam discurrentes, quicquid inter utrumque latus fuit, in praedam diripiunt (ma la cronologia degli avvenimenti è errata).

[12]F.V. LOMBARDI, Mille anni di Medioevo, in AAVV, "Il Montefeltro", vol. 2 (Ambiente, Storia, arte nell'alta Valmarecchia), Villa Verucchio 1999, pp. 88-145, a pag. 93 (Sancti itaque corpusculum ad castellum nomine Montem Feletrem multis emensis regionibus apporatum est). Vds. anche le osservazioni ivi presenti, a proposito della fortezza di S. Leo: "Tenuto conto che esisteva già al tempo del trasporto  del corpo di san Severino (488), la sua costruzione deve essere fatta risalire all'epoca in cui i romani con l'imperatore Diocleziano cominciarono ad avere paura  delle invasioni barbariche, dopo quella degli alamanni (259) o degli jutungi (271). Montefeltro era la fortezza di sbarramento della vallata del Marecchia, chiudendo la prosecuzione dalla pianura del Po verso l'alto Tevere, cioè verso Roma".

[13]F.V. LOMBARDI, Ricerche su Castrum Glocii: ipotesi ed indizi, in "Studi Montefeltrani", 1 (1971), pp. 23-32.

[14]G. BURONI, La scomparsa della diocesi di "Pitinum Mergens" nella zona del Furlo, in "Studia Picena", 16 (1941), pp. 97-116, a pag. 113: "S. Geronzio, vescovo di Cagli (?), venne assalito e decollato dagli scismatici presso le Foci di Cagli al suo ritorno dal Concilio Palmare nel 502".

[15]Lombardi, Mille secoli, p. 92: "Non è un caso che proprio nel Montefeltro si sia ritrovato uno dei più ricchi "tesori" d'epoca ostrogota".

[16]Eliminato l'imbelle Teodato dopo le prime sconfitte (perdita della Sicilia e di Napoli) ed eletto Vitige, i Goti rinunciarono a difendere Roma, verso la quale si dirigeva il generale bizantino Belisario, e si ritirarono a Ravenna nel dicembre 536. Qui si riorganizzarono e,  nel febbraio 537 marciarono lungo la Flaminia  verso Roma, che fu inutilmente assediata dal febbraio 537 al marzo 538. Per maggiori dettagli sugli avvenimenti vds. O. BERTOLINI, Roma di fronte a Bisanzio e ai Longobardi, in AAVV, "Storia di Roma", vol IX, Bologna 1941, pp. 140 ss.

[17]Procopio, La guerra gotica, II, 10, 1-8; Wolfram, Goti, p. 593.

[18]Procopio, La guerra gotica, II, 11, 1-4 (traduzione in A. TREVISIOL, Fonti letterarie ed epigrafiche per la storia romana della provincia di Pesaro e Urbino, Roma 1999, p. 13).

[19]Procopio, La guerra gotica, III, 11, 32-34. Cfr. III, 25, 7-8. I due centri furono, dopo tale devastazione, per alcuni anni abbandonati, o quasi, dalla popolazione.

[20]Procopio, La guerra gotica, II, 11, 11-14: "Questa fortezza non la costruirono gli uomini ma la formò la natura; c'è una strada molto dirupata, a destra di questa strada scende un fiume da nessuno guadabile per la violenza della corrente, e a sinistra non molto lontano sporge una roccia scoscesa che arriva di tale altezza che gli uomini che per caso fossero apparsi alla sua estremità, somigliavano per quelli di sotto a piccolissimi uccelli, per quanto sembravano piccoli. E non c'era nessuno sbocco nei tempi antichi perché la roccia sboccava sulla corrente stessa del fiume, senza offrire nessun passaggio a quelli che la camminavano (sic, percorrevano). Allora gli antichi costruendo qui una galleria hanno fatto in  quel luogo una piccola entrata. E chiudendo la maggior parte dell'altro ingresso eccetto quel tanto da lasciare anche qui una piccola porta, costruirono una fortezza naturale e giustamente la chiamarono Petra" (traduzione di M. PERLORENTZOU, La corografia dell'Esarcato nel De Bello Gothico di Procopio, in "Studi Romagnoli", XVIII (1967), pp. 321-331, a pag. 329.

[21]Procopio, La guerra gotica, II, 11, 10-22 (traduzione in Trevisiol, Fonti letterarie ed epigrafiche,, pp. 182-184.

[22]Wolfram, Goti, p. 594.

[23]Procopio, La guerra gotica, II, 19, 1-17; II, 20, 1.

[24]PROCOPIO, Le guerre (a cura di M. Craveri), Torino, 1977, pp. 495-6.

[25]Wolfram, Goti, p.  594.

[26]Bertolini, Roma, pp. 155-157; Wolfram, Goti, p. 598.

[27]Procopio, La guerr gotica, III, 6, 1 (conquista di Petra); Addimentum Marcellini Comitis, cap. VI, ad. an. 542, in "Monumenta Germaniae Historica", Auctores Antiquissimi, vol XI, p. 107: "Egli passò il Po, e presso Faenza sconfisse l'esercito dei Romani, ne mise in fuga i comandanti, occupò Cesena e Urbino, Montefeltro e Petra Pertusa e, dilagando per ogni parte, cominciò a devastare l'Italia".

[28]Procopio, La guerra gotica,  III, 11, 32-34; III, 25, 7-8; Luni, La città di Pisaurum, pp. 57 e 61. La storiografia locale parla erroneamente della rioccupazione di entrambe le città.

[29]Wolfram, Goti, p. 612.

[30]Procopio, La guerra gotica,  IV, 23.

[31]Procopio, La guerra gotica, IV, 34, 16; Buroni, La scomparsa, p. 102.