Inserisco nel web il primo capitolo di una mia ricerca riguardante Montefiore, un castello dell'Apecchiese sottoposto alla famiglia feudale degli Ubaldini. Chi fosse interessato al lavoro (Il castello di Montefiore (diocesi di Città di Castello), storia di un feudo degli Ubaldini nello Stato di Urbino, Fano - 2005), può trovarlo nelle seguenti biblioteche: Oliveriana di Pesaro, Federiciana di Fano, Comunale di Apecchio, Planettiana di Jesi, biblioteca dell'Archivio di Stato di Pesaro.

                                                                                                                                                        Stefano Lancioni


 

Le aree feudali del Ducato e della Legazione di Urbino

 

Il Ducato di Urbino, creato il 23 agosto 1474 da papa Sisto IV , che investì della dignità ducale Federico  da Montefeltro (1474-1482) ed i suoi discendenti, in pratica coincideva con la somma delle città, delle terre e dei castelli che i Montefeltro avevano in momenti diversi occupato dal XIII secolo, ed il cui possesso era già stato a più riprese legalizzato dai pontefici stessi, con il vicariato apostolico concesso ad Antonio, Guidantonio  ed Oddantonio da Montefeltro (quest'ultimo ebbe anche l'investitura ducale nel 1443).

Nel 1508 subentrò a Guidubaldo I da Montefeltro (1482-1508) il nipote Francesco Maria della Rovere (1508-1538), già signore di  Senigallia e del Vicariato di Mondavio. Nel 1512 costui ottenne da papa Giulio II la città di Pesaro: in questo modo, con Senigallia e Gubbio, ma senza Fano (che non ne farà mai parte e si troverà circondata dai territori del Ducato) e senza alcuni territori minori (feudi situati lungo i confini o in prossimità di essi), il Ducato raggiunse l'estensione di circa 3500 kmq e i confini, grosso modo, dell’attuale provincia di Pesaro e Urbino.

Dopo i governi di Guidubaldo II  (1538-1574) e Francesco Maria II (1574-1631), entrambi appartenenti alla famiglia Della Rovere, il Ducato fu incorporato nello Stato della Chiesa, assumendo la denominazione di “Legazione Apostolica di Urbino e Pesaro”.

 

I distretti amministrativi

I distretti amministrativi nel Ducato erano costituiti da città, terre, castelli, ville, e province.

Le città erano sede di diocesi ed erano circondate da un territorio (contado), più o meno esteso, in cui diversi distretti amministrativi minori (terre, castelli e ville) non dipendevano dal Duca ma dalla città stessa. Nel Ducato di Urbino erano sette: Urbino, Pesaro, Gubbio, Cagli, Fossombrone, Senigallia, S. Leo (quest'ultima era sede di diocesi ma con un territorio esiguo, all'interno della provincia di Montefeltro).

Le terre sono entità amministrative demograficamente inferiori alle città e religiosamente subordinate a queste ultime, ma anch'esse con statuti propri e un territorio meno esteso di quello cittadino, su cui esercitavano la loro supremazia[1]. Nel Ducato erano diciannove[2], alcune dipendenti da città o inserite nelle province, altre autonome e dipendenti solo dal potere centrale.

Anche i castelli (alcune centinaia nell’intera provincia: la struttura amministrativa di base dal Medioevo a tutta l’età moderna) avevano un loro territorio, generalmente di poche decine di kmq: alcuni dipendevano direttamente dal potere centrale; altri ricadevano sotto il governo di una città o di una terra. E’ da sottolineare che con tale denominazione non si intendeva quello che comunemente viene a noi ora in mente, cioè l’edificio castellano con ponte levatoio, torri, mura, ecc., ma il distretto amministrativo, comprendente una porzione di territorio di alcuni chilometri quadrati. Alcuni distretti avevano effettivamente al proprio interno un “castello”, cioè un luogo circondato da mura, all’interno del quale erano situate abitazioni, chiese, palazzi del potere, ma altri distretti non l’avevano più (perché distrutto anche secoli prima) o non l’avevano mai avuto (l’insediamento della popolazione era sparso).

Le ville, nate nel Medioevo soprattutto in punti strategici (in pianura, vicino a ponti, presso incroci stradali) o derivate da castelli “declassati” (distrutti e/o degradati), erano entità territoriali coincidenti generalmente con una parrocchia. Non erano circondate da mura (come città, terre e castelli) e non avevano autonomia territoriale ed amministrativa: dipendevano in questi campi dal centro urbano gerarchicamente superiore (castello, terra o città) del cui territorio facevano a tutti gli effetti parte.

La mancanza di centri cittadini in due ampie circoscrizioni montane, caratterizzate da una grande frammentazione dei distretti amministrativi, indipendenti da centri maggiori, e dalla difficoltà di collegamento sia tra i centri stessi sia tra questa zona ed il resto dello Stato, spinse i Duchi di Urbino a creare due province, affidate a “commissari” nominati dal Duca stesso, con compiti sia amministrativi sia giudiziari (erano giudici in seconda istanza nel territorio di loro pertinenza): il commissario della Provincia Feretrana ebbe sede dapprima a Montecerignone (“capoluogo” dei domini feltreschi nel Montefeltro già al tempo del conte Antonio), poi a S. Leo (unica città, sede vescovile, della zona); quello della Massa Trabaria a Casteldurante (Urbania) [3].

Quest’ultimo in particolare aveva una zona di competenza piuttosto ampia[4]; in tale zona vicari, podestà e capitani (che si trovavano nelle principali comunità sottoposte al Commissario) erano giudici di prima istanza e rappresentavano il potere sovrano nei luoghi di rispettiva giurisdizione; il Commissario, alle cui dipendenze stava, per l'esecuzione delle sentenze e la vigilanza sull'ordine pubblico, un certo numero di birri, comandati da un bargello di campagna, era anche, come detto, giudice di seconda istanza[5].

 

L’amministrazione

Lo Stato di Urbino, costituitosi nell'arco di circa centocinquant'anni attraverso l'aggregazione progressiva di città, terre e castelli, in una zona amministrativamente divisa e in parte dipendente da centri esterni, si presentava al suo interno, almeno in un primo tempo, fortemente differenziato: i rapporti tra il signore e i vari "distretti amministrativi" che componevano il suo Stato erano infatti "regolati in perpetuo dai patti di dedizione e dai privilegi che confermano senza modificare le istituzioni amministrative e fiscali sviluppatesi nel periodo comunale"[6].

In pratica i vari nuclei territoriali (città con il loro territorio, terre, castelli) che lo componevano "erano approdati ad esso con le loro strutture di autogoverno, e con radicate tradizioni di autonomia, maturate e consolidate in una storia ormai antica, in cui essi avevano costituito gli essenziali nuclei di organizzazione della società nell'avvicendarsi di dominazioni diversi. La subordinazione ai Montefeltro (evento, per molti di essi, ancora recente, e inteso non necessariamente come definitivo) non si riteneva dovesse avere annullato quelle strutture di autogoverno attraverso cui i diritti dei sudditi potevano esprimersi e tutelarsi"[7].

In effetti i vari nuclei territoriali avevano ognuno il proprio territorio, i propri organi di governo, i propri statuti, diversi da un luogo all'altro[8]. I capitoli, patti scritti stipulati tra signore e cittadini al momento della dedizione (rinnovati o confermati al momento della successione), erano la base legislativa su cui si basavano i rapporti tra città e principe: essi sancivano la sovranità del signore ma anche la titolarità dei diritti da parte della città che a lui si sottometteva[9].

Il regime pattizio alla base dello Stato faceva sì che si integrassero due generi di organi e magistrature: quelle della comunità locale (città, terre o castelli) e quelli del principe.

Le comunità locali, in possesso di un grado di autonomia abbastanza elevato, si articolavano in organi e magistrature aventi poteri in campo legislativo (generalmente costituiti da un consiglio maggiore e un consiglio minore), esecutivo (diversi ufficiali e magistrati addetti all'amministrazione e al governo di annona, luoghi pii e del contado), giudiziario (le comunità conservavano generalmente le prerogative in questo campo per le cause minori) e fiscale[10]: tutti questi magistrati erano scelti dai cittadini[11].

In particolare, "sia civitates, sia terrae, sia castra sono gelosissimi della loro antica supremazia sulle campagne intorno, rivendicano con pertinacia l'intangibilità e la reintegrazione dei loro contadi; rivendicano ed esercitano su di essi diritti giurisdizionali e di governo, sottoponendoli ai loro statuti e ai loro tribunali, imponendo ad essi obblighi fiscali, annonari, di polizia e il riconoscimento anche formale del loro dominio e della loro superiorità"[12]. I castelli erano sottoposti alle autorità cittadine e le magistrature ivi esistenti (massari, sindaci, gualdari) rappresentavano semplicemente "la garanzia di obbedienza alla città, il termine periferico del controllo, dovendo denunciare le controversie terminanti in atti criminali, esigere il pagamento delle imposte, redigere le 'rassegne dei grani, delle biade e delle bocche', e, ancora prima, giurare annualmente fedeltà dinanzi alle magistrature cittadine"[13].

Le magistrature emanzione del principe consistevano in commissari, podestà, capitani e vicari, che venivano inviati dal signore nei vari centri, maggiori o minori; negli ufficiali del fisco signorile; nei castellani delle fortezze del Ducato[14].

La struttura degli organi amministrativi, giudiziari e di governo culminava nella Rota di Urbino, un alto tribunale con poteri anche esecutivi[15], nell’Udienza ducale (“senz’ombra di dubbio con Francesco Maria II  il più alto organo di governo e di giurisdizione del ducato”, una sorta di Consiglio del Principe)[16] e nella persona del Duca. Più in basso rispetto a questi organi, che rappresentavano la possibilità di legiferare e governare unitariamente lo Stato, si trovavano organi e magistrature dell'amministrazione periferica.

 

I suffeudi ducali

Esistevano nel Ducato diversi "suffeudi"[17], concessi da Federico XE "Federico da Montefeltro, duca di Urbino"  da Montefeltro e dai suoi successori a lori fedeli che li governavano, amministravano la giustizia e riscuotevano imposte in base alla bolla d'investitura che descriveva minuziosamente i diritti di cui i feudatari (a cui era concesso il titolo comitale) godevano.

Le aree infeudate mutarono naturalmente nel tempo: ogni duca investita i suoi favoriti; viceversa alla morte del feudatario senza eredi (o in caso di sua condanna) il feudo veniva devoluto alla Camera Ducale. Indicativamente (anche se mai furono occupate contemporaneamente) esse si estendevano per 1140 kmq (circa un terzo del Ducato), interessavano il 5-6% dei sudditi (ma tale cifra si sarebbe poi innalzata, nel Seicento, fino a superare il 10%)[18] ed erano particolarmente numerose nelle zone periferiche e di montagna (nel Montefeltro e nella provincia di Massa c’era la metà di tutti i feudi del Ducato; seguivano Eugubino, Vicariato di Mondavio e Pesarese)[19].

Gli investiti erano stretti congiunti (parenti o affini) del Duca, cortigiani o esponenti di spicco delle nobiltà cittadine, fedeli sostenitori della casata (talvolta appartenenti a famiglie di elevata condizioni provenienti da altre regioni italiane), creditori (e l'investitura concorreva all'estinzione di mutui contratti con la camera ducale)[20].

"Un esame condotto su grosse campionature consente di registrare come la competenza del feudatario resti piuttosto larga sia in materia criminale sia negli appelli e come, anche sul fronte legislativo, contabile, fiscale e catastale, i poteri dell'investito possano spiegarsi ampiamente e a volta al di là dei limiti e prescrizioni formali del Duca e della Santa Sede. Restano, naturalmente, i poteri di controllo del Duca, e successivamente del potere centrale, sulla giurisdizione in specie criminale"[21].

L'investito aveva una serie di entrate (non tutte presenti in ogni feudo e varianti, per entità, da luogo a luogo):

- tributo annuo versato dalla comunità soggetta o dai singoli (“colte” o “collette”), di scarsa entità;

- introiti costituite da multe, pene pecuniarie, confische;

- appalti;

- proventi di forno, osteria, mulino, fornaci, ecc., di proprietà del feudatario, che i sudditi erano obbligati ad utilizzare;

- esenzioni fiscali sulle proprietà allodiali;

- libera estrazione di grani e biade (cioè possibilità di esportare liberamente dal feudo i prodotti dei poderi ivi presenti)

- giornate di lavoro (generalmente una all’anno per famiglia) e donativi vari (una giornata di lavoro, una certa quantità di paglia e fieno,

   un capretto o castrato…) offerti dai sudditi in determinate occasioni (talvolta, trasformate in un’imposta fissa in denaro);

-  riserva di caccia[22].

Il feudatario aveva naturalmente anche una serie di uscite:

-  censo dovuto al Duca o alla Camera Apostolica (di scarsa entità);

-  remunerazioni dovute al personale incaricato dell’amministrazione del feudo:  commissario, vicario o rettore (con funzioni giudiziaria e di polizia, nel caso di mancata residenza del feudatario dal luogo o di sua assenza); personale di cancelleria; bargello e guardie (incaricate del mantenimento dell’ordine pubblico)[23].

Nel complesso si raggiungeva,  presumibilmente, un equilibrio tra entrate e uscite che, se non arricchiva l'investito, gli permetteva di fregiarsi del titolo nobiliare, indispensabile anche per eventuali impieghi a corte[24]. "Non dovevano essere gli entroiti di giurisdizione, in quanto tali, a collocare i beneficiari in una posizione di particolare privilegio sotto il profilo economico, quanto, piuttosto, i riflessi indiretti sia del possesso del titolo e, dunque della loro collocazione in un preciso e prestigioso status sia rispetto al duca e al sovrano, sia dell'esercizio dei poteri legislativi e giudiziari che finivano con il porre il barone in posizione di forza nei confronti dell'amministrazione e degli ambienti locali"[25].

 

La Legazione di Urbino e Pesaro

Con la morte di Francesco Maria II (28 aprile 1631), il territorio del Ducato di Urbino fu incamerato dalla S. Sede e fu creata la Legazione Apostolica di Urbino e Pesaro, governata da un Cardinal Legato. Vennero mantenute norme e leggi del Ducato e anche, per quanto riguarda gli ordinamenti locali e la catena di comando, si innovò poco[26]. Anche i feudi sopravvissero e, se non ne vennero creati di nuovi (come era esplicitamente proibito, nel XVII secolo, dalla legislazione dello Stato della Chiesa), rimasero in vita quelli esistenti al momento della Devoluzione.

Dal 1631 all’età napoleonica pertanto le uniche modifiche territoriali furono provocate dall’estinzione delle famiglie feudali (in tal caso le comunità infeudate venivano incamerate dalla Camera Apostolica) o dalla divisione o vendita delle giurisdizioni feudali  (la prima pratica è eccezionalmente attestata in in età roveresca, la seconda era evidentemente vietata; dopo la devoluzione, anche se serviva un chirografo pontificio che autorizzasse  gli atti, i controlli dell’autorità centrale erano meno efficaci e pertanto i detentori di giurisdizioni feudali avevano un comportamento ben più disinvolto).

I feudi in ogni caso sopravvissero: alla fine del XVIII secolo esistevano ancora diversi “luoghi baronali: si tratta di una trentina di feudi con popolazione generalmente di poche decine o poche centinaia di anime (complessivamente 9399)[27].

 

I rapporti tra il feudo di Montefiore e il Ducato di Urbino

Il feudo di Montefiore, preesistente alla creazione del Ducato ed indipendente da esso (il castello spettava di diritto a Città di Castello, ma gli Ubaldini se ne erano impossessati tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo), si presenta in età moderna come sottoposto alla giurisdizione dei Duchi di Urbino: i titolari giurarono a più riprese fedeltà al Duca, riconoscendosi suoi vassalli. Altro segno di superiorità era rappresentato dalla subordinazione dei nobili (poi conti) di Montefiore (e degli altri castelli dell’Apecchiese) al Commissario di Massa, che veniva di volta in volta attivato dagli organi centrali per risolvere le controversie che saltuariamente sorgevano, e che, oltre ad avere giurisdizione in seconda istanza sulle comunità di propria competenza, sovrintendeva anche ad un gruppo di feudi contigui ai possessi ducali (Apecchio, Montevicino, Piobbico, Baciuccheto, Pecorari, Montefiore, Pietragialla, Metola, Rocca Leonella e Monte Grino); nel caso fossero state compiute azioni criminali dai feudatari della zona, processi e sentenze, salvo diversa disposizione, erano svolti ed emanate dal detto Commissario, che aveva la propria sede a Casteldurante (Urbania).


 

[1]G. CHITTOLINI, Su alcuni aspetti dello stato di Federico, in G. Cerboni Baiardi, G. Chittolini, P. Floriani (a cura di), "Federico da Montefeltro. Lo Stato, le arti, la cultura", vol. I (Lo Stato), Roma 1986, pp. 61-102, alle pagg. 62-63.

[2]S. Angelo in Vado, Casteldurante, Pergola, Gradara, Mombaroccio, Mondavio, Orciano, Mondolfo, S. Costanzo, Fermignano, Cantiano, Valfabrica, Mercatello, Macerata, S. Agata, Sassocorvaro, Penna, Barchi e Tomba di Senigallia.

[3]G. ALLEGRETTI, Istituzioni, società, economia in età moderna, in AAVV, “Il Montefeltro - Ambiente, storia, arte nelle alte valli del Foglia e del Conca”, Villa Verucchio 1995, pp.175-226, a pag. 176: "Più difficile, anche per la mancanza di studi specifici, resta definire l'istituzione in positivo: le competenze del parlamento feretrano (abolito definitivamente solo con la riforma del 1816), in periodo ducale estese anche all'annona, dopo la devoluzione tendono a limitarsi alla ripartizione dei pesi camerali e alla gestione funzionale dell'apparato di giustizia; e, quanto alla Massa, mancando di un organismo paragonabile al parlamento feretrano, si definisce solo come circoscrizione giudiziaria politicamente raccordata nella persona del commissario e pattugliata dalla squadra di birri agli ordini del bargello di campagna". Chittolini, Su alcuni aspetti, p. 94.

[4]Le comunità soggette alla provincia di Massa sono, nel 1736, le seguenti (riunite in vicariati o podesterie):Frontino (con Belforte, Torriola e Viano); Lamoli (con Borgo Pace, Castel de' Fabbri, Guinza, Montedale, Parchiule, Compiano, Mercatello, Castel della Pieve, Dese, Figiano, Palazzo de' Mucci, S. Martino, Valbona); Peglio (con Lunano); S. Angelo in Vado (con Baciuccaro, Metola, Monte Majo e Sorbitolo); Sassocorvaro (con Valditeva); Urbania (F. CORRIDORE, La popolazione dello Stato Romano, 1656-1901, Roma 1906, passim).

[5]G. ALLEGRETTI, Istituzioni, società, economia in età moderna, in G. Allegretti – F.V. Lombardi (a cura di), “Il Montefeltro - Ambiente, storia, arte nelle alte valli del Foglia e del Conca”, Villa Verucchio 1995, pp. 175-185, a pag. 176. Nel 1651 erano in organico quattro birri nella squadra di Urbania (ivi, nota 5, p. 184).

[6]A.K. ISAACS, Condottieri, stati e territori nell'Italia centrale,  in G. Cerboni Baiardi, G. Chittolini, P. Floriani (a cura di), "Federico da Montefeltro. Lo Stato, le arti, la cultura", vol. I, Lo Stato, Roma 1986, pp. 23-60, a pag. 56.

[7]Chittolini, Su alcuni aspetti, p. 84.

[8]Chittolini, Su alcuni aspetti, p.  87. 

[9]Chittolini, Su alcuni aspetti, p. 86: "Varie clausole potevano essere  poi di fatto modificate, e magari a svantaggio delle comunità. Non per questo, tuttavia, esse rinunciavano a richiamarsi a quei capitoli, né cessavano di rinnovarli, o di stipularne di nuovi: vuoi per cercare di ridefinire più favorevolmente i diversi obblighi e impegni, vuoi anche per riaffermare le loro prerogative di organismi dotati di diritti propri, e confermare la natura pattizia del rapporto che univa (seppure in posizioni diverse di forza e di autorità) da un alto i sudditi (o per meglio dire i corpi territoriali entro cui i sudditi si trovavano organizzati e raccolti) dall'altro il signore, i cui diritti di sovranità - mai assoluta e senza limiti - con i diritti naturali e originari dei corpi dovevano contemperare".

[10]Chittolini, Su alcuni aspetti, p. 98: "In mancanza di un sistema di imposizione uniforme e organico esteso a tutto lo stato, restavano in vita i sistemi fiscali delle singole comunità, con le loro varie e disparate voci di entrata: imposte dirette, pedaggi e gabelle, proventi delle condanne e delle grazie, entrate patrimoniali, etc. In alcune località il duca si arrogava il diritto di riscuotere alcuni tributi: gabelle, o certe imposte dirette (ad esempio a Urbino la colletta), rimanendo gli altri alla comunità. Ma in altri luoghi egli percepiva ancora una somma fissa, una sorta di salarium domini, mentre la ripartizione e riscossione del grosso dei proventi fiscali era amministrata dalle magistrature locali".

[11]Chittolini, Su alcuni aspetti, pp. 96-97.

[12]Chittolini, Su alcuni aspetti, p. 90.

[13]Turchini, Il Ducato di Urbino, p. 42.

[14]Chittolini, Su alcuni aspetti, p. 94.

[15]Turchini, Il Ducato di Urbino, pp. 23-24: Esso, concesso da papa Giulio II XE "Giulio II, papa"  il 18 febbraio 1507, era indipendente da ogni altro superiore di qualsiasi altra provincia dello Stato Pontificio e aveva competenze amplissime "non solo in civilibus et in criminalibus ma anche in materia di benefici, estendendosi non solo ai laici ma anche al clero; ampiamente qualificato dal punto di vista professionale, garantisce dalle contese cittadine, permette di tendere all'unificazione del Ducato, amalgamando le città con i territori... le sentenze emanate dal Collegio rotale hanno validità per tutto il Ducato ed i suoi diversi territori, comitati, vicariati, province in esso comprese soprattutto dopo il 1548".

[16]G. Allegretti, L’archivio di rocca di Pesaro e un anomalo registro di protocolli dell’Udienza ducale, in “Pesaro città e contà”, 20, pp. 27-36, a pag. 29. Vds. anche A. TURCHINI, Il Ducato di Urbino, Pesaro e i Della Rovere, in AAVV, “Pesaro nell'età dei Della Rovere”, Venezia 1998, pp. 3-56, a pag. 20: "(L’Udienza Ducale) è una magistratura che esprime immediatamente la volontà ducale, al di sopra e al di fuori della normale catena degli organi giudiziari, con poteri di indirizzo, nomina, verifica, esame, controllo di moltissimi offici". Il Tribunale dell’Udienza era costituito da tre auditori e un avvocato fiscale; ad esso partecipavano anche un segretario di giustizia, quattro cancellieri e un portiere.

[17]I titolari di “suffeudi” erano feudatari del duca di Urbino, a sua volta vassallo del papa: avevano generalmente il titolo comitale (di “conte”). Esistevano anche “feudi” veri e propri, situati all’interno del Ducato di Urbino (Oliva, Carpegna), o ai confini di esso: i titolari di questi non dipendevano dal Duca di Urbino, con cui comunque a vario livello collaboravano, ma dal papa.

[18]B.G. ZENOBI, Le aree feudali del Ducato di Urbino tra XV e XVIII secolo, in S. Anselmi (a cura di), "La montagna tra Toscana e Marche. Ambiente, territorio, cultura, società dal medioevo al XIX secolo", Milano 1985, pp. 147-165, a pag. 150: "Certo, si tratta di cifre approssimative e riferite, per di più, alla seconda metà del secolo XVIII. Ma osservando una campionatura più ristretta costituita dal Ducato di Urbino ed analizzata su tre tagli diacronici corrispondenti ai censimenti del 1656, 1701 e 1803, in rapporto con l'intera popolazione dello Stato pontificio, si hanno valore che non smentiscono le dimensioni generali del fenomeno che appare, nell'area in esame, particolarmente limitato. Le comunità baronali del Ducato, rispetto alla popolazione totale del Ducato, rappresentano il 14,3% nel 1656, l'11,3% nel 1701, il 15,8% nel 1803".

[19]B.G. ZENOBI, Lo spessore e il ruolo della feudalità, in G. Cerboni Baiardi, G. Chittolini, P. Floriani (a cura di), "Federico da Montefeltro. Lo Stato, le arti, la cultura", vol. I (Lo Stato), Roma 1986, pp. 189-212, alle pagg. 197-200. Vds., per la densità demografica, ivi, p. 208: "E' necessario osservare, a questo proposito, come, su un centinaio di comunità infeudate, solo dieci superano all'incirca i mille abitanti o - è il caso di Sant'Agata - toccano i tremilacinquecento: per il restante si tratta, in ogni caso, di qualche centinaia di anime al massimo".

[20]Zenobi, Lo spessore, p. 209.

[21]Zenobi, Lo spessore, p. 205.

[22]Zenobi, Le aree feudali, pp.158-159; Zenobi, Lo spessore, p. 201.

[23]Zenobi, Le aree feudali, p. 159.

[24]Zenobi, Lo spessore, pp. 201-202. Vds. ivi, p. 209: "L'utilizzazione della feudalità nel governo del Ducato e il suo coordinamento rispetto alla restante aristocrazia non feudale che partecipa alla gestione del potere nello Stato di Urbino, sia nei ranghi dell'amministrazione centrale (finanze e militare), sia locale (nobiltà di reggimento delle città), sia di collegamento (o di controllo) nel rapporto centro-periferia (luogotenenti, podestà), avvengono orizzontalmente nel quadro di una distinzione di aree di dominio diretto (affidate dal Duca, al di sopra di certi livelli, a personale scelto da lui fra i nobili, di ceto feudale e no) e di dominio mediato (ove il feudatario è unico titolare della giurisdizione). Ma il coordinamento rivela anche una dimensione verticale, nel senso che è dalla semplice nobiltà che si accede al livello feudale, il quale finisce col rappresentare, anche sotto il profilo promozionale, la ristretta area di vertice nella piramide sociale del Ducato".

[25]Zenobi, Le aree feudali, pp. 160-161.

[26]Turchini, Il Ducato di Urbino, p. 16.

[27]Corridore, La popolazione, p. 249 (censimento del 1782): Baccaresca (108 anime); Biscina (116); Carlano (70); Carpini (344); Castel Leone e annessi (1707); Castiglione Aldovrandi (139); Castiglione di Cagli (38); Civitella Ranieri (221); Coccolano (226); Colle Rosso (10); Col Stregone e Colle Longo (20); Frontone (662); Isola del Piano (617); Massa e annessi (320); Migliara (37); Montefiore e Contea del Fumo (10); Montegrino (65); Montelabbate (591); Monteporzio (608); Offredi (98); Pecorari (89); Piobbico (394); Poggio di Berni ed annessi (749); Poggio Manente (96); Porcozzone (89); Rocca Leonella (182); S. Angelo e Montecchio (1208); S. Cristina e Torricella (165); Stacciala (341); Valcodale (79).